«La situazione non si è risolta con la vittoria dei No al referendum greco: capisco gli elettori di Syriza quando festeggiano, un po’ meno i tifosi italiani. Il voto ha stabilito che Tsipras gode del sostegno della maggioranza dei greci. Ma questa non è la soluzione. Ora Grecia e Ue si pongano un obiettivo politico: evitare l’uscita di Atene con un piano sostenibile di riforme e rientro dal debito. Ed è questa la battaglia che farà oggi l’Italia. La vittoria politica di Tsipras lo renderà più forte per muoversi in questa direzione? Me lo auguro. Tocca a lui fare il primo passo». Lo dice in un intervista al nostro giornale il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.
Qual è il rischio più grosso che stiamo correndo?
«Quello della totale inadeguatezza politica dell’Europa, quello di rispondere ai problemi semplicemente con l’applicazione di parametri numerici. Non dobbiamo sottovalutare la gravità specifica del problema greco, ma questo si risolve solo se l’Ue ritrova un orizzonte politico: sappiamo bene che la Grecia è fuori dai parametri e non per colpa dei tedeschi cattivi, ma per responsabilità delle leadership che si sono succedute ad Atene negli ultimi 15/20 anni. La Bce ha preso le sue decisioni, che non sono di competenza della politica. Ma i governi non possono scaricare il peso delle scelte sulle spalle per quanto robuste del governatore. La politica non può rinunciare al suo ruolo».
Perché tenere la Grecia nell’Unione è importante?
«Non ci sono solo ragioni culturali, sentimentali, storiche, ma anche forti argomenti geopolitici. La prospettiva della cosiddetta Grexit non può essere valutata solo dal punto di vista contabile, ma anche da quello strategico: alleanze internazionali, collocazione nel Mediterraneo. La Grecia è stata snodo decisivo delle scelte europee dopo la Seconda guerra mondiale. Che rimanga un Paese dell’Ue e della Nato non può essere elemento secondario della nostra valutazione. E dico questo senza alcuna giustificazione delle scelte fatte (o non fatte) da Atene in questi ultimi mesi. Ma un conto è criticarle, un altro è minimizzare in un’ottica riduttiva e miope gli scenari di una fuoriuscita».
E l’argomento secondo cui un’eurozona senza la Grecia sarebbe più omogenea e forte, mentre Atene potrebbe continuare a far parte dell’Unione?
«Penso che oggi rimettere insieme i cocci dopo l’azzardo del referendum sia difficile, ma penso anche che dobbiamo puntare a un accordo, piuttosto che a scenari inediti e densi di rischi. Temo che chi li persegue faccia un po’ da apprendista stregone».
Il referendum ha ridato voce ai populisti, europei e nostrani. Quelli che lei definisce i tifosi italiani del referendum tornano da Atene in cuor loro rafforzati.
«Non accetto che la dimensione di politica interna sia determinante, perché se lo facessi dovrei rispondere come una parte dell’establishment europeo e cioè: caro Tsipras, hai voluto il no, ora gestisciti le conseguenze, così evitiamo il contagio e l’impressione che il populismo paghi. Non ho alcuna indulgenza verso Syriza. Ma qui parliamo del destino di milioni di persone e di un Paese strategico per la storia e la geografia europea. Non c’è alcuna lezione da impartire, del tipo Tsipras va punito perché così ne educhiamo molti anche in casa nostra. Sono occhiali domestici deformanti».
Grillo dice che il referendum ha quantomeno permesso ai cittadini di esprimersi.
«Si, ma su cosa? Qui non si trattava di accogliere o rifiutare un’intesa. In questo caso, mi sembra che l’unico obiettivo fosse di dimostrare che il governo greco aveva il sostegno della maggioranza del popolo. Non mi unisco al coro degli entusiasti. Era una scelta contro l’Europa e l’euro? I leader greci hanno detto di no e li prendo in parola. Per questo mi aspetto da loro proposte nuove».
È mancata la leadership tedesca? Der Spiegel ha definito la cancelliera Merkel come una «signora delle macerie».
«Non possiamo lamentare un eccesso di ruolo della Germania e poi invocarne una maggiore leadership. L’Europa è un grande progetto, di cui Berlino è parte importante. Ma se c’è stata un’assenza in questi mesi, sulla vicenda greca e non solo, penso sia stata quella generale dell’Europa. È difficile arrivare a un’intesa sulla Grecia se non si profila un’altra Unione, responsabile, solidale, più integrata, capace di porre il tema della crescita in cima alle sue priorità».
Ma oggi è realistico darsi obiettivi ambiziosi, una prospettiva federalista per esempio, o bisogna avanzare lungo i sentieri possibili?
«È necessario porsi obiettivi più ambiziosi. I sentieri seguiti finora non hanno permesso di risolvere alcun problema. Abbiamo discusso per un mese sulla differenza tra obbligatorio, volontario, vincolante e consensuale. Sto parlando della ricollocazione dei migranti, problema significativo ma tutto sommato circoscritto, la cui soluzione non è stata certo aiutata da brutte immagini ai confini interni tra Paesi europei. Abbiamo davanti la prospettiva del confronto sulla possibile uscita del Regno Unito dalla Ue, la sfida del terrorismo e dell’instabilità nel Mediterraneo. Possiamo proseguire con un’Europa debole e tecnocratica, che decide in base a parametri e regolamenti, mentre fatica a prendere decisioni politiche?».
Ieri c’è stato un vertice franco-tedesco. Passa sempre e solo da lì ogni rilancio?
«Con tutto il rispetto per la collaborazione franco-tedesca, che nel caso dell’Ucraina ha prodotto risultati positivi, assolutamente no. Le decisioni in Europa si prendono oggi, non nei vertici bilaterali. E l’Italia nell’ultimo anno ha contribuito a portare a Bruxelles il confronto politico sull’economia e sull’immigrazione. Ma per uscire dal surplace, cioè dallo stallo, occorrono risultati più importanti. L’Italia farà la sua parte, ma io me lo aspetto da tutti quei Paesi e da quei cittadini europei per i quali è chiaro che un’Europa ferma oggi è destinata a fallire».