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Gentiloni:«Basta parlare di compiti a casa. L’Italia sta facendo il suo dovere» (Corriere della Sera)

Alla cancelliera Merkel e al presidente francese Hollande, che sollecitano il nostro governo ad aprire i centri di registrazione per i migranti «in tempi brevi, entro l’anno», il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni risponde che «l’Italia fa quel che deve» e anche «molto di più, salvando decine di migliaia di vite umane e accogliendo i profughi». E ricorda che «a livello internazionale siamo citati come modello positivo».

È una nuova tirata d’orecchi al nostro Paese?

«Non la interpreto così. Chiedere a Grecia e Italia di fare i compiti a casa sull’immigrazione sarebbe come dire a Paesi colpiti da un’ alluvione di accelerare la produzione di ombrelli. L’Europa ha bisogno di andare nella direzione esattamente opposta a quella di bacchettare i Paesi alla sua frontiera esterna. E in Francia e Germania vedo piuttosto la consapevolezza della centralità dell’immigrazione».

Cosa vuol dire concretamente per l’Italia?

«La logica non può essere quella di applicare regole concepite 25 anni fa, parlo della Convenzione di Dublino, mentre il fenomeno è cambiato radicalmente nei numeri, nelle origini, nelle dimensioni per i singoli Paesi. Se si continua a dire che ognuno deve sbrigarsela da solo, il rischio è che questo moltiplicarsi e sovrapporsi di immagini terribili — da Kos alla Macedonia, dalla Manica alla Sicilia — alla fine diventi un macigno sul futuro dell’Europa. Il punto è condividere e modificare le regole dell’accoglienza, senza dimenticare il lavoro di medio periodo sulle cause profonde: guerre, povertà, dittature».

Quali modifiche chiediamo?

«Tre sono le questioni essenziali: l’europeizzazione della gestione dei flussi, cioè un diritto d’asilo europeo, con definizione comune della titolarità e politiche di rimpatrio comuni. Può sembrare ambizioso, ma se guardiamo ai conflitti tra Paesi confinanti o ancora peggio allo scaricabarile su quelli alla frontiera esterna, è l’unica strada da seguire. I migranti arrivano in Europa, non in Italia, Grecia, Germania o Ungheria. Così come funziona adesso, si rischia di mettere in discussione Schengen e tornare alle vecchie frontiere: ma limitare la libera circolazione delle persone significa minare uno dei pilastri dell’Europa. Seconda questione, la creazione di canali di immigrazione legale verso l’Europa nel suo complesso: abbiamo bisogno di immigrati legali, che hanno capacità e talenti. Infine, occorre un equilibrio negli oneri tra vari Paesi. Se il diritto d’asilo vale per tutta Europa, l’equa distribuzione impedirà che i flussi si indirizzino tutti verso i Paesi più ricchi e generosi».

Ma i centri di registrazione li apriremo o no?

«Ripeto, ragioniamo su come andare oltre Dublino: l’ha proposto la stessa Commissione nella sua agenda e la Germania proprio ieri ha dato il buon esempio sospendendone l’applicazione e decidendo di esaminare le domande di asilo di tutti i migranti siriani, indipendentemente dal Paese europeo di primo ingresso».

Lei ha accennato alla soluzione delle cause. La stabilizzazione delle crisi regionali è Ira queste e la Libia è quella per noi più immediata e urgente.

«La Libia è per noi la porta di accesso dei flussi migratori. I colloqui riprendono domani in Marocco. Tocca ai libici trovare l’intesa, stiamo lavorando in queste ore parlando con tutte le parti. Bernardino León presenterà nei prossimi giorni una proposta finale, completa degli allegati sulla composizione del governo unitario, che si spera possa coinvolgere anche il Gnc, il Parlamento di Tripoli. Chi si autoesclude si assume una grande responsabilità, perché il processo andrà comunque avanti. Nel caso di accordo l’Italia conferma la disponibilità, non da sola, a un ruolo di accompagnamento e consolidamento anche sul piano della sicurezza».

Saremmo pronti a intervenire anche in presenza di un accordo non accettato da tutti?

«Non voglio pensare all’ipotesi che il Gnc scelga di star fuori. Sarebbe sbagliato e so per certo che non sarebbe una scelta dell’intero campo di Tripoli. Ma è chiaro che accordi perfetti, sostenuti dal 100% delle parti, non esistono. Non puntiamo a escludere chicchessia. Raggiungeremo l’80%? Sarebbe un buon risultato. E questo farebbe partire il meccanismo di accompagnamento. Senza accordo, avremmo uno scenario del tutto diverso, centrato sulla coalizione antiDaesh (Isis, ndr), che in quel caso potrebbe estendere il suo raggio d’azione alla Libia. Attenzione però a non strumentalizzare la minaccia di Daesh, che non deve mai essere sottovalutata, ma in Libia è per fortuna ancora circoscritta. Non bisogna dire: il negoziato è fallito, interveniamo contro Daesh».

II vertice Merkel-Hollande aveva in agenda anche l’Ucraina. I due leader però avevano invitato solo il premier ucraino Poroshenko e non il russo Putin. Qualcosa si sta guastando nel processo di Minsk?

«La situazione sul campo rimane fragile. L’Ucraina si trova nella difficile posizione di dover contemporaneamente difendere la propria integrità territoriale e procedere sul cammino delle riforme costituzionali ed economiche. Tuttavia, alcuni passi in avanti nell’applicazione degli accordi sono stati fatti. Kiev deve proseguire nel varo delle riforme previste dagli accordi. Quanto a Mosca, dipende solo dal Cremlino se a gennaio le sanzioni potranno essere tolte, come a noi piacerebbe».

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