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Gentiloni: La lezione di Rabin è viva dopo 20 anni (Il Messaggero)

In giorni terribili per il Medioriente ricorrono i 20 anni dall’omicidio di Rabin.

Yitzhak Rabin, indimenticato leader israeliano e premio Nobel per la Pace. Per i più giovani, la sua immagine è indissolubilmente legata a quella di Yasser Arafat, capo palestinese a cui Rabin strinse la mano sul prato della Casa Bianca, di fronte allo sguardo di Bill Clinton. Fu proprio quell’accordo tra israeliani e palestinesi, all’inizio degli anni Novanta, a formare, in una terra magica e martoriata, la prima generazione di giovani cresciuti nella prospettiva della pace. Quella fase eccezionale fu interrotta bruscamente dal suo assassinio, e quegli stessi ragazzi e ragazze rischiano oggi di perdere definitivamente la speranza, al pari dei loro genitori, sopravvissuti a tante guerre, e dei loro figli, nati un mondo sempre più caotico.

Soffiano venti pericolosi in Medioriente, nel contesto più largo di una regione gravata in questo momento da conflitti terribili e nuovi, scenari che potrebbero relegare la vicenda israelo-palestinese ai margini dello scacchiere geo-politico. In realtà garantire la sicurezza di Israele e la nascita di uno Stato palestinese resta una chiave di volta per la stabilità dell’area. La vita di Rabin può essere d’aiuto a cogliere due elementi fondamentali sulla strada verso la pace: quando c’è una guerra non esistono sempre i buoni e i cattivi, spesso sono anzi sfumature e trasformazioni a fare la differenza; inoltre, non ci sono soluzioni salvifiche ed estemporanee, solo ostinato impegno e tensione verso il compromesso.

Giovanissimo militante del Palmach, Rabin fu uno dei fondatori delle Idf, l’esercito di Israele. Dopo aver condotto la battaglia in clandestinità contro gli inglesi, che allora reggevano la Palestina, egli non esitò a combattere quegli ebrei che avrebbero voluto continuare la lotta armata contro gli arabi anche all’indomani dell’indipendenza dello Stato. Egli contribuì da soldato a conquistare Gerusalemme nel 1948 e da Capo di Stato maggiore a sconfiggere la coalizione araba nella guerra dei Sei giorni. Fu poi ambasciatore negli Usa, ministro del Lavoro e della Difesa fino a essere eletto primo ministro per il Partito laburista. La sua durezza nel reprimere la prima Intifada non gli impedì – dopo quaranta anni passati a combattere—di intuire uno spiraglio oltre la guerra perpetua, di scorgere una prospettiva verso il “compromesso”. E forse è proprio questa parola più umile rispetto a “pace” che dovremmo adoperare — come ha ben spiegato lo scrittore Amos Oz: «Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi» — per rifuggire nuove disillusioni e frustrazioni.

Gli accordi di Oslo furono certamente imperfetti, ma consentirono un alito di speranza in tutta la regione e tuttora costituiscono il punto di partenza per qualsiasi ipotesi di trattativa. Il processo di pace è in una situazione di stallo che favorisce nuove tensioni e altre vittime. Ma non serve a nessuno rinunciare agli accordi raggiunti venti anni fa, che oggi possono fornire indicazioni a chiunque si impegni con tenacia per riavviare il negoziato.

A mettersi d’accordo — non solo in Medioriente – sono spesso i combattenti che hanno acquisito autorevolezza sul campo e che non esitano a mettere in gioco la loro stessa vita per il benessere delle generazioni future. La lezione di Yitzhak Rabin è più viva che mai.

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