Questo sito utilizza cookie tecnici, analytics e di terze parti.
Proseguendo nella navigazione accetti l'utilizzo dei cookie.

Preferenze cookies

Giro: Democrazia vs paura (L’Huffington Post)

La democrazia è malata? Attraversa una crisi irreversibile? Ce lo chiediamo in questo inizio 2016, presi tra tante incertezze e preoccupazioni. Il mondo sembra di difficile comprensione e preso da molti demoni. La cosa più grave è che non siamo più sicuri del nostro modo di vivere con gli altri, tutto ci sembra minaccioso. Siamo quasi tutti insoddisfatti della qualità delle nostre democrazie: europei, nord-americani, latino-americani ma anche altri.

Per noi occidentali bruciano la lunga crisi economica e l’incapacità (reale o percepita) di molti governi nel farvi fronte; il dibattito senza sbocchi tra rigoristi del bilancio e sostenitori della crescita; le amarezze del processo di integrazione europea; il neo-populismo che avanza con il suo corredo di partiti xenofobi; le passioni separatiste; la pulsione demagogica delle primarie americane e la crisi della maggioranza repubblicana al Congresso che ha bloccato un corretto rapporto istituzionale con la Casa Bianca; l’incertezza davanti ai flussi di rifugiati; le lentezze nel reagire ai conflitti e, infine, la terribile prova del terrorismo. Ma ancora peggiori paiono le disillusioni di altri universi: il fallimento delle speranze suscitate dalle primavere arabe e la grande guerra mediorientale in corso; la fine di un ciclo politico in America Latina accompagnata da varie crisi tra cui la quella istituzionale della democrazia brasiliana; l’irrigidimento di molti Stati in Asia e il ritorno della guerra fredda con il nucleare nord coreano; i continui stop-and-go delle esperienze democratiche in Africa sottoposta – oltre all’endemica povertà – a persistenti regimi a doppia faccia, a situazioni immobili, colpi di stato e cleptocrazie che poco hanno a cuore il destino della propria gente.

Sono ormai poche le voci che ancora ripetono il mantra degli anni Novanta: democrazia e liberalismo potranno risolvere ogni cosa… Si diceva addirittura che una nuova era di sviluppo richiedesse regimi democratici per funzionare. Il diritto internazionale avrebbe – si sperava – risolto ogni crisi. Si era addirittura pensato a una organizzazione delle democrazie, più efficace dell’ONU.

Ma ora? Già nel 1997 Fareed Zakaria aveva lanciato un grido d’allarme, intravvedendo l’avvento di “democrazie illiberali”, regimi camaleontici, fondati su un sostanziale autoritarismo dalle varie forme: economico, etnico, culturale o altro. L’unica vera differenza con il passato erano le elezioni: quasi più nessuno ne fa ormai a meno. Ma cosa dire su indipendenza del potere giudiziario, clientelismo, libertà di stampa e associazione, diritti, corruzione, libertà d’impresa? Con la svolta del Millennio molte autocrazie si sono più o meno rapidamente adattate alle urne, senza rinunciare alla sostanza del potere. Progressivamente tutti (o quasi) sono stati chiamati al voto – anche le donne in alcuni paesi islamici che non lo permettevano- ma ciò non significa entrare in una vera democrazia.

Tuttavia a tali giustificate voci critiche, oggi si aggiunge un più generale sentimento di sfiducia proprio sulla “democrazia in quanto tale”, al punto che molti cittadini dei paesi compiutamente democratici come i nostri, dubitano dell’effettiva efficacia del sistema. Crisi della democrazia non solo attribuita alla sua incompiutezza ma alla sua stessa essenza. Ci si chiede se il sistema sia adattato alla globalizzazione che necessita di decisioni rapide e non può permettersi il lusso di lungaggini parlamentari. Ci sono minoranze (di ogni tipo) frustrate e impazienti perché non vedono sbocchi o – reciprocamente – che sono percepite come ostacolo. C’è chi invoca “limiti” da porre, sempre più insidiosi, in reazione alle emergenze del terrore (dal Patriot Act all’idea di ritirare la cittadinanza ora dibattuta in Francia) o dei rifugiati. C’è invece chi rimpiange il sistema parlamentare e disapprova l’attuale “democrazia a bassa intensità”, per citare Revelli. Si torna a discutere di “democrazia organica” legata a una radice, magari una “stirpe”…Di tali questioni si dibatte (confusamente) non solo in Europa o negli Usa ma ovunque. La democrazia in se stessa è oggi sottoposta a valutazione e vaglio critico ad ogni latitudine. Pensare alla democrazia in quanto sistema significa partire proprio da qui, in particolare dalla grande prova che la minaccia in ogni paese (sia esso o no compiutamente democratico): la paura. Si tratta di un fenomeno globale, che non riguarda solo l’Occidente o i paesi avanzati.

La paura è la cifra del nostro tempo. Tutto fa paura e in particolare il futuro. Dobbiamo renderci conto che non siamo solo noi in Europa ad avere paura del terrorismo o delle migrazioni: tale sentimento pervade ogni popolo ed è condivisa in ogni civiltà. La dottrina del “nemico” si è riattivata dappertutto. Violenza diffusa, guerra e terrorismo colpiscono in ogni dove, sono in generale aumento, allo stesso tempo causa e conseguenza della difficoltà del vivere insieme, che emerge in ogni continente. Non si tratta qui di fare una macabra contabilità -magari competitiva- delle vittime per stabilire chi ne soffre di più. Basta sapere che uno dei settori economici di più ampia espansione nel mondo è proprio quello della sicurezza: dalla diffusione delle armi alle porte blindate e panic rooms, dagli allarmi alle agenzie di sicurezza -pubbliche e private-, ai contractors, ai sistemi tecnologici, video-camere nelle città, controlli ecc. fino alla trasformazione degli stessi assetti urbani con la nascita delle gated communities. Il paradosso è che in un’epoca in cui la sicurezza della vita personale e collettiva è certamente la più alta mai goduta nella storia dagli esseri umani, tutti cercano di proteggersi sempre più, i presunti nemici proliferano e la paura si diffonde.

Tale paura crea sempre una zona oscura, quella che Igino Domanin chiama “l’indifferenziato, l’indistinzione …al di là del muro ci aspetta la barbarie…”. Questa paura si diffonde in maniera pervasiva e senza frontiere, crea un’emozione incontrollata e contagiosa. Si tratta di un nemico molto insidioso della democrazia perché attacca una delle sue basi etico-culturali: la fiducia. Come un virus, la paura non ha chiare origini, funziona con il metodo dello spillover (passa da un corpo all’altro senza che sia facile risalire all’origine) e soprattutto non ha bisogno di giustificazioni né spiegazioni. Colpisce ogni corpo sociale, ogni status, ogni cultura, ogni nazione, ogni civiltà.

Nella nostra Europa la paura si concentra su pochi obiettivi, tra cui il primo sono gli “stranieri”. Straniero è tutto ciò che pare aggredire il nostro stile di vita, ma la paura è ingegnosa: opera confondendo i piani tra immigrati, rifugiati, nomadi, musulmani, terroristi ma anche “greci” (che mettono a rischio la stabilità economica), “tedeschi” che vogliono comandare in Europa, cinesi che comprano di tutto ecc.
La paura va a ondate: l’altro ieri gli sbarchi, ieri il terrorismo, oggi le banche e i nostri risparmi, domani chissà, per poi ricominciare, come in un loop. La paura schiaccia tutto sull’attimo presente e non crea memoria cosciente: fa dimenticare che di banche in crisi ce ne sono sempre state, che non siamo alla nostra prima crisi economica, che le migrazioni durano da tempo, che la crisi dell’islam ha almeno 30 anni, che il terrorismo l’abbiamo prodotto anche noi…

La paura è isterica, non ama il ricordo né il ragionamento, pretende immaginarie soluzioni immediate, come se non ci fosse bisogno di capire ciò che realmente accade. La paura non propone alternative: vuole solo la fine di qualcosa, un repentino cambio. La paura può fare ammalare un’intera società senza che ci si ricordi quand’è cominciata; si trasmette con la cultura del sospetto, l’ignoranza, il disprezzo, la dimenticanza, l’esclusione.

Per questo si tratta di un acerrimo nemico della democrazia: quest’ultima è nata proprio per liberare l’uomo dalla paura attraverso un patto di regole certe, condiviso da tutti e in cui tutti abbiano un loro spazio e siano messi davanti alle medesime condizioni di partenza, solo per il fatto di essere cittadini. All’interno di tale patto, la democrazia ha allargato la parte dei diritti di ciascuno, allo scopo di rendere più facile il vivere insieme senza che si debba temere il vicino. La democrazia non è perfetta, anzi ha sempre molti difetti. Per questo è evolutiva e non è mai definitiva (come lo sono invece altri sistemi): il patto è continuamente sottoposto a incessanti miglioramenti, approfondimenti, trasformazioni. Tale dinamica di aggiustamento permanente é la sua forza ma oggi sembra essere la sua debolezza. La paura non sa che farsene di un sistema progressivo: distrugge la fiducia nel patto senza affrontarlo mai. Pochi osano dire “basta con la democrazia, torniamo indietro!”. Ma molti, troppi ripetono: non è sufficiente, è troppo debole oppure è troppo forte (accentratrice), non mi rappresenta abbastanza oppure mi schiaccia troppo in un ruolo; è troppo complessa; non mi fido degli altri…, va bene per pochi ma non per tutti, deve essere limitata (da cosa e da chi?) ecc.

Tuttavia a rimettere in discussione la forma liberaldemocratica di governo sono anche modelli che paiono funzionare. Alcuni sistemi, che potremmo chiamare a “democrazia limitata”, vengono portati ad esempio per una nuova fase di riforma, in competizione con la democrazia di marca occidentale. Molti apprezzano il caso della “verticale del potere” nella Russia di Putin -probabilmente tra tali modelli il più riuscito fino ad ora-, una sorta di democrazia controllata o “democrazia sovrana”, certo adatta a governare un paese-continente come la Federazione Russa. Il successo più grande del presidente russo è l’aver ricostruito la fiducia dei russi nelle proprie istituzioni: precisamente la sostanza di cui è fatta ogni democrazia.
Alain Rouquié, ex diplomatico francese e grande conoscitore di America Latina, parla di “democrazie egemoniche”, una sorta di modello latino-americano che prende piede sempre di più, nel quale chi vince non solo si appropria dell’amministrazione ma esercita anche un certo controllo (temporaneo) su società, giustizia e media. In entrambi i casi vi sono pur sempre le elezioni che possono rovesciare l’equilibrio delle forze. Si tratta di una specie di autoritarismo blando o a tempo limitato: infatti in America Latina la regola dei due mandati è ferrea (talvolta anche uno solo) e nessuno si sogna di metterla in discussione (a parte, forse, Morales in Bolivia). Similmente nemmeno Putin l’ha revocata, malgrado il suo alto consenso. Sulla falsariga “democratico illiberale” si muovono altri paesi in ogni continente, spesso con il consenso di larga parte della popolazione, invocando particolari radici culturali e storiche davanti alle quali l’impianto occidentale appare asettico, sradicato e inefficace. Tale “democrazia agnostica” si baserebbe su regole universali che non sono riconosciute da tutti, soprattutto in questa fase culturalista e identitaria della nostra storia.

In appoggio alle tesi di una “democrazia controllata” vi è la sfida di un altro sistema: quello cinese. Pechino è governata con un abile mix di liberalismo economico e autoritarismo politico. Non c’è altra soluzione -si dice- per un paese così complesso, ma l’influenza del modello interessa ben oltre l’estremo oriente. Molte elites africane o asiatiche tendono verso tale opzione. Quindi -si conclude- meglio una democrazia sotto controllo che una scelta ancor peggiore.

Ma l’Europa e l’Occidente hanno la possibilità di rammentare che la democrazia liberale è frutto di una storia tormentata, di un dibattito infinito legato alla costruzione della stessa idea di Stato. Sinteticamente si può dire che anche in Europa, per rispondere alla sfida della paura, si è progressivamente costruito un sistema di pesi e contrappesi (check-and-balances) e di stato di diritto (rule of law) dopo aver testato molti regimi e dopo essere caduti in molti errori. Non si tratta dunque di un sistema asettico ma costruito nel carne e nel sangue dei nostri popoli, passando attraverso vari conflitti. Non è asettica la democrazia liberale: forse si tratta di un distillato ma una radice la possiede. E poi non tutte le democrazie euro-occidentali sono identiche. Ma prima di tutto dobbiamo esserne convinti noi stessi. Come ogni vicenda umana, anche quella della lotta tra democrazia e paura ha una storia. Talvolta in Europa ne perdiamo la memoria, perché troppo ci siamo abituati ad concedere alla paura di essere la nostra triste compagna quotidiana. Basta però ricordare almeno di averla vista all’opera negli anni Trenta, quando l’Europa scivolò nel baratro e quasi si suicidò. Non è stato poi così tanto tempo fa da renderci tale consapevolezza impossibile. È utile un po’ di profondità storica per accorgersi che certi discorsi allarmisti e molte grida attuali, le avevano già sentite i nostri padri e i nostri nonni. Possiamo dunque prevederne gli effetti. Cornelius Castoriadis diceva che “la democrazia è chiamata a morire e rinascere costantemente”. Dipende da noi non abbandonarla e farla rinascere sempre migliore, sempre più giusta. Anche in tempi difficili non bisogna aver paura.