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Gentiloni: “Sì all’ingresso di Ankara nell’Unione” (La Stampa)

Ministro Gentiloni, mentre la Gran Bretagna si allontana dall’Europa, la Turchia prova a riavvicinarsi. Dall’inizio della trattativa con Ankara sono passati undici anni. Ne vale la pena oggi?

«La Turchia è sotto attacco. Sostenerla nel processo di avvicinamento all’Unione non è un gesto formale. Sottolinea invece la consapevolezza che il suo isolamento sarebbe masochista».

Eppure la Turchia di cinque anni fa, il Paese dinamico e aperto di allora somiglia sempre di più ad un’autarchia soffocante. Che c’entra con noi?

«Dieci anni di porte chiuse da parte di Bruxelles non hanno aiutato. Ora ci sono due fatti positivi su cui investire: il primo è l’intesa sui migranti, e togliamoci dalla testa che interessi solo la Germania. L’altro è il disgelo di Ankara verso Mosca».

Un altro Paese trattato con durezza. Non c’è il rischio di spostare l’asse dell’Europa a Oriente?

«Occorre essere ragionevoli. Quella è una carta importante sul tavolo diplomatico siriano, la madre di tutte le crisi. Difendiamo i diritti civili e abbiamo opinioni differenti sui curdi siriani. Ma è cosa diversa dal mostrare pregiudizi verso la Turchia: è un errore che l’Italia non ha mai fatto».

Cosa ne pensa della decisione di ieri del Senato sulle forniture degli F16? I rapporti con l’Egitto si stanno deteriorando?

«È una decisione del Senato che rispettiamo. Conosciamo il ruolo chiave dell’Egitto e la sua funzione essenziale di contrasto al terrorismo. Ma ciò non ci impedisce di pretendere lealtà e collaborazione sul caso Regeni. Sullo stato di questa collaborazione vedremo le considerazioni che farà la procura di Roma».

Questa settimana l’Italia ha ottenuto un posto non permanente nel Consiglio di Sicurezza in condominio con l’Olanda. Sperava andasse meglio?

«Avrei preferito vincere, ma le elezioni competitive con voto segreto all’Onu sono poco prevedibili. L’unico precedente dell’Italia risale al 2000, e perdemmo. Stavolta sono soddisfatto dell’esito finale: nel 2017 sommeremo la presidenza del G7, l’anniversario dei Trattati di Roma, il seggio al Consiglio».

A proposito del 2017: sul calendario sono segnate le elezioni in Germania, Francia e Olanda. La Brexit si annuncia complessa.

«L’uscita della Gran Bretagna è stato uno shock per tutti. Ora bisogna rispettare la decisione degli elettori inglesi e reagire. Occorre essere chiari su cosa vuoi dire stare in Europa, e su questo la riunione informale dei 27 a Bruxelles è stata chiara: se vuoi il mercato unico devi accettare le libertà fondamentali dell’Unione».

Sta dicendo che la Gran Bretagna non può avere i vantaggi dell’Unione e rifiutare gli svantaggi?

«Sento molto parlare del modello norvegese: mi auguro si prenda quella strada, significherebbe mantenere rapporti simili a quelli di oggi. Ma sia chiaro che comporterebbe un’accettazione di regole sulla libertà di circolazione delle persone che non mi paiono in linea con quanto sostenuto in campagna elettorale dai promotori del Leave».

Ci sono modelli alternativi?

«C’è ad esempio quello canadese, ovvero il massimo di rapporti commerciali. Ma non il mercato unico senza le libertà fondamentali dell’Unione».

Non ha la sensazione che i sostenitori del Leave fossero convinti di perdere?

«Noto una certa sorpresa, lo testimoniano le prospettive incerte all’interno del Partito conservatore. È il bello della democrazia, vedremo gli sviluppi, ma non possiamo restare spettatori immobili del loro dibattito per mesi e mesi. L’attivazione dell’articolo 50 dei Trattati dovrà avvenire comunque al più presto, non appena si sarà insediata la nuova leadership».

Ritiene ancora possibile un dietrofront?

«Ah, non spetta a me dirlo. Questo può dipendere solo dal parlamento e dai cittadini britannici. Registro che i precedenti in Europa non mancano: né di referendum smentiti da decisioni parlamentari, né di referendum contraddetti da altri referendum. Possiamo persino auspicare uno scenario del genere, ma non staremo fermi ad attenderlo».

Nel frattempo l’Unione cambierà volto? La riunione a tre di Berlino a inizio settimana ha inaugurato un direttorio europeo?

«Chiamarlo direttorio sarebbe sbagliato, ma la decisione inglese attribuisce più responsabilità ai tre grandi Paesi fondatori. Ciò non significa che ci debba essere un’automatica identità di vedute: fra Francia e Italia c’è più convergenza su temi come il sostegno alla crescita e all’occupazione, sulla questione migratoria siamo più vicini alla Germania».

Lei ha promosso un incontro dei sei Paesi fondatori. Ci stiamo avvicinando all’Europa a due velocità?

«Se l’Europa rispondesse al referendum con un dibattito sull’Europa a cerchi concentrici, sarebbe pronta per lo psichiatra. Battute a parte, il futuro è probabilmente questo: sabato ne abbiamo parlato senza tabù. Ma oggi dobbiamo fare passi avanti sulle richieste che vengono dai cittadini europei: crescita, investimenti, lavoro, una vera politica migratoria comune. Non ci possiamo permettere di coltivare l’illusione che basti l’accordo con la Turchia L’impegno comune in Africa è necessario e urgente».

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