Ha avuto il doloroso compito di riportare in patria le salme dei nostri nove connazionali trucidati nell’attentato al caffè-ristorante di Dacca. Nell’intervista concessa a l’Unità, il Vice ministro degli Esteri con delega alla Cooperazione internazionale, Mario Giro, parla di questa esperienza e lancia l’allarme: «Mi preoccupa – afferma – l’attacco all’Asia, finora rimasta sullo sfondo della Jihad globale». Nel mirino dell’azione terroristica in Asia, rileva Giro, ci sono l’Indonesia, la Malesia, il Bangladesh, «grandi Paesi musulmani», nei quali l’Isis e i gruppi locali «affiliati» fanno politica con lo strumento del terrorismo, «una forma di politica estremamente violenta che usa il franchising Isis, rivolgendosi a giovani in rottura con le loro società».
Vice ministro Giro, Lei era sull’aereo che ha riportato in Italia i nostri nove connazionali trucidati a Dacca. Vorrei partire da una testimonianza personale.
«È stata una missione tristissima, ovviamente. I nostri connazionali di cui ho incontrato alcun esponenti, così come alcuni missionari, erano sconvolti. Tutti mi hanno detto che non si aspettavano una cosa di questo tipo, avendo una esperienza del Bangladesh come un Paese tranquillo e tradizionalmente unito».
Un Paese investito pesantemente dalla sfida globale lanciata dal terrorismo jihadista e, in particolare, dall’Isis.
«Sappiamo che la sfida del terrorismo è globale da tempo. Ora attacca l’Asia. È come un virus che si trasmette attraverso le giovani generazioni estremiste, come è avvenuto nel caso di Dacca. C’è una rottura generazionale, avvenuta prevalentemente in ambiente accademico. Questo fa riflettere».
Come contrastare questo fenomeno. Lei ha avuto modo anche di incontrare esponenti del governo bengalese. Che impressioni ne ha ricavato?
«Ho trovato le autorità del Bangladesh volenterose e al tempo stesso disorientate: anche loro non se lo aspettavano, eppure c’erano stati vari segnali…».
A cosa si riferisce in particolare?
«Negli ultimi due anni, ci sono stati circa 50 assassinii mirati di blogger ed esponenti laici. Ma come si sa, colpire occidentali da molta più pubblicità».
Lei in precedenza ha fatto riferimento, nel caso di Dacca ma non solo, ad una rottura generazionale maturata in ambienti istruiti e non determinata dunque dalla rabbia sociale coltivata nelle degradate periferie arabe o musulmane. Di fronte a un fenomeno così complesso, basta una risposta di carattere militare?
«No. Ovviamente si tratta di capire l’origine della radicalizzazione di questi ragazzi. Per restare all’Asia, alcuni parlano della Malesia come luogo di reclutamento. Certamente c’è un ruolo catalizzatore dell’Isis, una capacità di attrazione che proviene anche dalla indubbia, e inquietante, capacità mediatica di questo gruppo terrorista, capace più di qualunque altro di usare un linguaggio, anche filmato, che raggiunge i giovani e giovanissimi. Ci sono poi gruppi locali jihadisti che, per conquistare la ribalta mediatica più ancora che per ottenere sostegno in armi e finanziamenti, decide di allearsi con lo Stato islamico. Tutto questo diviene oggi un cocktail micidiale, nei confronti del quale c’è bisogno di molta più intelligence».
Dopo aver colpito a Dacca, il Daesh ha fatto scempio di vite umane nel cuore sciita di Baghdad (oltre 250 morti). Come leggere questa escalation?
«L’attentato di Istanbul precedente come quello successivo di Baghdad sono connessi a logiche che già conosciamo. In Iraq, l’Isis ha perso Fallujia: il riavvicinamento turco a Russia e Israele prova queste reazioni. Mi preoccupa l’attacco all’Asia, fino ad ora rimasta sullo sfondo. Indonesia, Malesia, Bangladesh, sono grandi Paesi musulmani».
E in questi grandi Paesi musulmani, l’Isis come altri gruppi della nebulosa jihadista, con gli attentati fanno politica.
«È proprio così. È una forma di politica estremamente violenta che usa il franchising “Isis”, ancor più di quanto in passato era stato fatto con al- Qaeda, rivolgendosi a giovani in rottura con le loro società».