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Giro: «Non c’ è ragione per il pessimismo europeo»

Alle giovani generazioni trasmettiamo ansia eppure fuori dai confini dell’Europa non esiste nessun eldorado per i nostri figli

Scriveva Paul Valery tra le due guerre, parlando del declino dell’Europa: «Non c’è niente di più stupido nella storia dell’antagonismo europeo in materia politica e economica, comparato e combinato con la sua alleanza in materia scientifica… Ciò provoca fatalmente il ritorno dell’Europa al rango secondario che le è assegnato dalle sue dimensioni e da cui il lavoro e gli scambi interni del suo spirito l’avevano tratta. L’Europe n’a pas eu la politique de sa pensée (non ha avuto una politica degna del suo pensiero)».

Tale giudizio appare ancora oggi veritiero, dopo che la crisi del 2007-8 e la crescita dei sovranismi populisti hanno largamente eroso la reputazione dell’Unione Europea nell’opinione dei cittadini e – ciò che è più grave – al di fuori dei suoi confini. Siamo giunti alla Brexit, la prima uscita dall’Unione e la prima vera rottura di un processo che eravamo abituati a considerare irreversibile.

A sessantenni dai Trattati di Roma e dopo la firma della settimana scorsa in Campidoglio, è utile una riflessione che parta proprio dalla vicinanza – come scriveva Valery – dell’Europa nel campo del pensiero e dello spirito e il suo contemporaneo scontrarsi in materia politica ed economica.

Sembra paradossalmente che i fìli tra europei si siano stretti in moltissimi campi mentre la medesima tela si andava sfilacciando nelle Cancellerie, complice la paura dei politici di mettersi contro un’opinione pubblica sempre più incerta e arrabbiata.

In effetti gli europei sono diventati pessimisti. Tutto sembra incutere angoscia, attorno a sé e lontano da sé. Viviamo come in stato di ansia permanente che trasmettiamo alle giovani generazioni. Queste ultime si trovano così in una situazione paradossale: da una parte sono molto più “europee” delle generazioni precedenti (sanno le lingue, si trovano “a casa” ovunque in Europa) e anche più globalizzate; dall’altra ricevono messaggi ansiogeni dagli adulti e cadono nelle stesse inquietudini e paure. Terrorismo, islam jihadista, immigrazione: l’allarme è dentro le mura e all’Europa istituzionale (come agli Stati nazionali indeboliti dalla globalizzazione, d’altronde) viene addebitato di aver contribuito all’attuale fragilità europea. Si espande così anche tra le giovani generazioni un antico riflesso: solo il vecchio Stato nazionale di una volta sarebbe in grado di offrire protezione. La conseguenza è il ripiego verso una forma vintage di nazione “sangue e terra” che pensavamo ormai tramontata.

Questa situazione prende i giovani a testimoni impropri: sono gli adulti a dire ogni giorno che non c’è spazio per loro, che il lavoro non c’è, che non avranno pensione, che dovranno cambiare lavoro varie volte nella vita ecc. ecc. E così i giovani affrontano la vita imbevuti dal pessimismo che è stato loro comunicato. Il messaggio subliminale (e nemmeno troppo) che viene loro comunicato è che devono andarsene. Alcune personalità italiane, pur avendo lavorato nel pubblico tutta la vita in ruoli prominenti, hanno avuto la sfrontatezza di scriverlo sui giornali («Lettera a mio figlio: vattene da qui»). Va detto: tutto ciò è falso, una fake new.

La realtà racconta un’altra storia. Dagli anni Cinquanta l’Europa è riuscita a diventare ricca e prospera come non era stata mai. Questo ha attirato e ancor oggi attira tanti da fuori di essa. Non esiste un area del mondo così stabile e socialmente equilibrata come l’Europa. Fuori dai suoi confini non esiste nessun eldorado per i nostri giovani. Anche se sottoposto a tensione, lo stato sociale europeo tiene, mentre negli altri continenti se ne è decretata da tempo la fine (o la mancata nascita). Giustamente Romano Prodi ha recentemente affermato che 60 anni di pace in Europa non si erano visti dall’Impero romano in poi: ciò deve divenire coscienza comune in un tempo in cui la guerra ritrova una sua popolarità. Il messaggio della firma quindi deve essere: smettiamola con i messaggi ansiogeni e con la farsa della “sindrome da declino”.

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