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Alfano: “Questo mare unisce. Dobbiamo investire in progetti sui giovani”

Rafforzare la sicurezza moltiplicando gli accordi come quello ben oliato con il Niger ma anche investire sull’idea antica di Mare Nostrum che unisce anziché dividere, 200 milioni per il Fondo Africa, un Erasmus del Mediterraneo, mille progetti cooperazione culturale. Il ministro degli esteri Angelino Alfano arriva all’apertura dei lavori di Med con un pacchetto pesante. Che non trascura, insiste, la questione non derogabile dei diritti umani in Libia. 

Si parla molto di investire in Africa per affrontare in modo costruttivo le migrazioni. A che punto siamo e con quali paesi abbiamo costruito le prospettive migliori?  
 

«L’aumento dei flussi migratori provenienti dall’Africa verso l’Europa ha posto sfide che dobbiamo affrontare con un approccio globale e strutturale. 

Globale, in quanto nessun Paese può gestire da solo il fenomeno. L’Italia è per questo in prima linea con un importante ruolo di stimolo per l’Europa e le Nazioni Unite. Ad esempio, questo mese, il contrasto al traffico di esseri umani è stata una priorità della Presidenza italiana in Consiglio di Sicurezza. Siamo inoltre i primi contributori al Trust Fund UE per l’Africa: il nostro impegno è reale.  

Ma l’approccio deve anche essere strutturale, poiché si tratta di un fenomeno destinato a durare per anni. Nel 2017, abbiamo aumentato le risorse della cooperazione per i Paesi africani di origine e transito. Oltre a queste somme già significative – circa 60 milioni di euro – abbiamo ulteriormente rafforzato il nostro impegno istituendo un Fondo per l’Africa di 200 milioni, che ho chiesto di rinnovare anche per il 2018».  

Esiste ancora ed è ancora praticabile il Migration Compact di cui non si è più sentito parlare?  

«Con l’idea di un “migration compact”, ossia di un partenariato tra paesi di transito, origine e destinazione dei flussi abbiamo dato un importante contributo di riflessione in ambito europeo, per costruire una strategia di medio e lungo periodo. Il Nuovo Quadro di partenariato con i Paesi terzi adottato dalla Commissione è il risultato di questo approccio, e sta dando i suoi frutti: il piano di investimenti esterni che mira a portare investimenti privati in Africa, ne è un esempio». 

C’è nella sponda sud del Mediterraneo una giovane società civile, magari cresciuta sia pur problematicamente dopo il 2011, pronta a dialogare con l’Europa, a immaginare partenariati economici, a progettare percorsi culturali comuni tipo Erasmus del Mediterraneo?  

«Investire nei giovani è strategico. Occorre agire su due fronti: da un lato, dobbiamo stimolare nuove attività imprenditoriali, che portino occupazione nell’area MENA; dall’altro, dobbiamo intensificare gli scambi culturali e universitari. Con questo spirito ho fortemente sostenuto la diplomazia economica verso la regione e stiamo lavorando a Intese con i Paesi dell’area per promuovere un Erasmus del Mediterraneo e creare nuovi programmi di mobilità rivolti a universitari e giovani ricercatori. Ma la chiave di volta è un investimento di grande portata nel settore culturale. E lo abbiamo fatto, lanciando un ambizioso programma “Italia, culture e Mediterraneo”, che prevede oltre 500 iniziative in vari Paesi della sponda sud nel corso del 2018». 

A due anni dall’estate monster da un milione di sbarchi, la cui maledizione pare allungarsi oggi sulla Merkel, l’Europa ha disegnato una strategia comune per il Mediterraneo o si va ancora in ordine sciolto?  

«Come ci ha riconosciuto il Presidente Juncker, salvando centinaia di migliaia di vite in mare, l’Italia ha anche salvato l’onore dell’Europa. Quando affonda un barcone con 200 persone, affonda anche l’onore della comunità internazionale. Il nostro Paese è stato lasciato a lungo da solo, ma qualcosa si sta muovendo: in Europa c’è una maggiore consapevolezza e, ad esempio, grazie a EUNAVFOR MED abbiamo potuto offrire sostegno alla guardia costiera libica, contribuendo alla formazione dei suoi equipaggi». 

Una settimana fa Strasburgo ha dato il via libera alla riforma del trattato di Dublino, una notizia che l’Italia attendeva. Cosa si aspetta che cambi adesso, dal momento che comunque le modifiche fanno riferimento ai richiedenti asilo e non agli assai più numerosi migranti economici?  

«Occorre una precisazione: il Parlamento Europeo ha votato solo sulla posizione che esso adotterà nel negoziato con il Consiglio. Al momento, quindi, non cambia nulla. Si tratta comunque di un dato politico importante, di cui il Consiglio dovrà tenere conto».  

E’ possibile immaginare canali legali di accesso per i migranti economici tipo quelli evocati giorni fa nel suo j’accuse dall’Alto Commissario Onu per la Libia al Hussein, considerando che il sistema delle quote è pressoché chiuso e che per quanto s’investa sull’Africa i flussi migratori non si fermeranno dall’oggi al domani?  

«È senz’altro possibile, ma il limite di tali soluzioni è oggettivamente fissato dall’enorme portata dei flussi irregolari di migranti. Solo quando avremo ridotto questi ultimi potremo rivedere il sistema delle quote legali». 

L’Europa in generale e l’Italia in particolare hanno un ruolo possibile nella crisi del Mediterraneo orientale, a partire dal Libano?  

«L’Italia ha un ruolo di primissimo piano per la stabilità e la sicurezza del Libano. Lo dimostrano la nostra partecipazione al gruppo ristretto dell’ISG-International Support Group per il Libano e le oltre 1000 unità italiane in UNIFIL, di cui siamo il primo contributore. Nella Nella vicenda delle dimissioni del premier Hariri, abbiamo reiterato il nostro appello all’unità, alla sovranità e all’indipendenza del Libano; tuttavia, per la stabilità del Paese e della regione, è altresì fondamentale che la sicurezza sia affidata solo alle forze armate e di polizia istituzionali, cercando di contenere il ruolo di milizie o forze paramilitari. Il Presidente libanese, Michel Aoun, ha voluto essere a Roma per inaugurare i MED Dialogues. Un’importante testimonianza del legame speciale che lega i nostri Paesi». 

Al netto di tanti distinguo, rispetto allo scorso anno gli sbarchi sono diminuiti. Vuol dire che anche la sicurezza nel Mediterraneo ha fatto un passo avanti?  

«Vuol dire che dopo appena un anno dal loro insediamento, e dopo aver dovuto fronteggiare nei primi mesi la gravissima minaccia di Daesh a Sirte, le pur fragili istituzioni libiche hanno avviato un’azione di controllo delle frontiere marittime grazie all’attività della Guardia Costiera locale, da noi sostenuta. Alla riduzione dei flussi ha contribuito, inoltre, il governo nigerino al quale abbiamo destinato 50 milioni di euro e che ha avuto il merito di far diminuire nettamente i passaggi attraverso la frontiera meridionale della Libia. Ma la riduzione degli sbarchi non significa di per sé più sicurezza: dopo la sconfitta militare di Daesh in Siria e Iraq, siamo chiamati a fronteggiare il rischio di un possibile ritorno dei foreign fighters». 

La riduzione degli sbarchi ha un costo umano altissimo, come abbiamo visto in Libia. Cosa può fare l’Italia perché la sicurezza proceda di pari passo con i diritti umani e non tornino sempre alla mente gli accordi stipulati a suo tempo con Gheddafi, che teneva a freno le partenze incarcerando i migranti in condizioni feroci?  

«Siamo ben consapevoli della grave situazione dei centri di accoglienza in Libia. Per questo motivo invitiamo tutti coloro che stanno dando lezioni a dare più fondi e sostegno logistico alla Libia, per risolvere una situazione che riguarda tutta la comunità internazionale. L’Italia sta facendo la sua parte: sosteniamo finanziariamente l’OIM e l’UNHCR, e abbiamo messo a disposizione circa 6 milioni di euro per migliorare le condizioni di vita nei centri libici con l’aiuto delle nostre ONG».  

A che punto è la Libia e a che punto è l’Italia nel dialogarvi?  

«L’Inviato Speciale ONU Salamé ha messo sul tavolo un’importante Road Map, che sosteniamo, perché non ci sono alternative al negoziato né scorciatoie militari. Abbiamo detto più volte e a tutte le parti che è necessario ridurre ad unità, sotto la guida dell’ONU, i diversi infruttuosi formati negoziali. Ne riparlerò con il Vice Premier Maitig, quando nei prossimi giorni sarà a Roma per partecipare ai Med Dialogues». 

La Russia – impegnata, pare, anche nel sud della Libia – sta giocando la partita per il Mediterraneo nella stessa squadra con l’Europa?  

«Alla Russia riconosciamo il ruolo di attore globale e di interlocutore imprescindibile nelle crisi del Mediterraneo. Come noi, dialoga con tutti gli interlocutori libici e sta sostenendo l’azione di Salamé. Quest’anno abbiamo sviluppato un proficuo dialogo con Mosca sulla Libia, e non solo. Con Sergei Lavrov faremo il punto di questa nostra collaborazione venerdì prossimo, in un incontro a Villa Madama». 

Qual è al momento la sfida “mediterranea” che la vede più ottimista e quale quella che la preoccupa maggiormente?  

«La sfida mediterranea che mi vede più ottimista è quella tunisina. La Tunisia è riuscita a contrastare i terroristi, a collaborare con noi nel contrasto ai flussi irregolari e a rafforzare la tutela dei diritti e l’economia del Paese. È la dimostrazione che anche nel Nord Africa è possibile costruire un progetto di pace e libertà. 

Quella che mi preoccupa maggiormente, data anche la vicinanza geografica, rimane la crisi libica. Ma questo ci spinge a fare sempre di più sul piano politico, diplomatico e di cooperazione per stimolare i libici e la comunità internazionale a sostenere un percorso politico di riconciliazione». 

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