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L’INTERVISTA – Serra: in Libano come sentinelle di reciproca fiducia

L’Italia è l’unico Paese che ha la leadership di un contingente multinazionale in Medio Oriente e la esercita nel sud del Libano attraverso l’UNIFIL II (United Nations Interim Force in Lebanon).


La seconda fase della missione delle Nazioni Unite è stata avviata dalla risoluzione 1701 nel 2006, anno del ritiro delle truppe di Israele a seguito del conflitto durato 34 giorni.


Con l’impiego di poco più di mille tra donne e uomini in quello che ormai non è più il “Paese dei Cedri”, l’Italia svolge un’azione che si inserisce nel quadro della promozione della stabilità dell’intera area mediterranea e mediorientale.


Il 28 gennaio la guida della missione di pace nel quartier generale a Naqoura è stata affidata al Generale di Divisione Paolo Serra, che attualmente incarna le due anime dell’UNIFIL, in qualità di Force Commander e Head of Mission a capo di 12mila caschi blu di 37 nazioni che rappresentano la comunità internazionale.


Un arrivo segnato da iniziative immediate: il 24 febbraio il Generale Serra ha indetto un tripartito speciale e il 27 marzo ha convocato a Beirut il primo incontro degli ambasciatori dei paesi maggiori contributori dell’UNIFIL.


Una posizione “gentile ma ferma” quella del Generale italiano che in Libano, dove la situazione è stabile ma fragile, punta sul consolidamento del rapporto con la popolazione e l’impegno nei processi di sviluppo sostenibile locale per innescare un circolo virtuoso in favore soprattutto delle generazioni future.


Al termine della recente Strategic Review della missione e nell’ottica della crisi regionale in corso, il Generale parla della situazione del Paese alla luce di quasi sei anni di attività di UNIFIL II.


“Vista da fuori la situazione sembra stabile e di una pace ormai consolidata. Noi che siamo all’interno abbiamo una sensibilità maggiore e la vediamo come molto fragile perché c’è una pace che basa i propri presupposti solo sulla buona volontà delle parti per evitare la riapertura di un conflitto.
Bisogna, poi, considerare due livelli: uno militare in cui c’è assenza di conflitto e uno politico in cui non si è ancora arrivati ad una pace ed è questo il livello su cui dobbiamo continuare a lavorare.
Per questo la Strategic Review ha spinto molto verso un’attività sinergica di tutte le sue agenzie che operano sul territorio.
Ognuno ha la sua missione, ma dobbiamo cercare di lavorare insieme per un obiettivo comune che non è solo quello di monitorare la cessazione delle ostilità ma anche di raggiungere una pace politica che è quello a cui tende la 1701.
Sono i primi sei anni in cui una nuova generazione è cresciuta in quella che per noi è la normalità e per loro è straordinario. Noi dobbiamo mantenere questa straordinarietà e far si che questa generazione possa crescere ed avere una vita normale”.


Oltre all’attività militare di deterrenza sul campo, UNIFIL agisce anche a livello politico-diplomatico attraverso il tripartite meeting che resta uno degli elementi chiave della missione. Qual è l’importanza di questa sensibile attività e il perché del meeting straordinario del 24 febbraio?


“E’ l’unico forum in cui le due parti sono disponibili a venirsi incontro una volta al mese e UNIFIL è lo specchio attraverso cui colloquiano per trovare delle misure di sicurezza che possono essere applicate sul terreno.
Non c’è un agreement tra le due nazioni, perché sono ancora ufficialmente in stato di guerra, ma si può parlare di un mutual understanding.
Lo speciale tripartito è dovuto alla particolare situazione del Paese di Kafer Kila (a sud-est, ndr) da cui la technical fence, la rete di separazione costruita sulla parte israeliana della blue line, dista solo pochi metri.
A volte si verificano attività poco mature come ad esempio giovani che tirano pietre dall’altro lato facendo partire l’allarme. Quindi arrivano le forze israeliane e si verifica il contenzioso attraverso la rete. La parte israeliana ha proposto la costruzione di un muro in modo che ci sia una protezione visiva, ma è una procedura complicata che potrebbe essere anche pericolosa.
Il meeting è servito a far si che le due parti potessero decidere cosa fare e per trovare con UNIFIL una soluzione di sicurezza indotta ai vari livelli, in maniera da avere un ‘buffer’ tra i due contendenti, all’interno del quale una ditta civile possa lavorare come in ogni parte del mondo.
Entrambe le parti hanno aderito a questo speciale tripartito con grande energia e voglia di trovare una soluzione. Negli anni scorsi non era così facile. Questo dimostra la volontà a livello politico di mantenere la situazione sud del libano e nord di Israele la più stabile possibile”.


Le minacce potrebbero giungere anche dal mare dove la posta in gioco è lo sfruttamento di ingenti giacimenti di gas e petrolio. Da parte libanese è stato espresso l’auspicio che la questione sia affrontata nel quadro di queste riunioni mensili. Pur non rientrando nel suo mandato, come si pone UNIFIL?


“C’è un grande interesse a trovare una soluzione di sicurezza militare anche in ambito marittimo. Noi cerchiamo, nelle pieghe di questo mandato, di offrire quella che potrebbe essere una soluzione in maniera di disporre in un eventuale futuro di due aree all’interno delle quali i due paesi possano agire senza avere coercizione o paura di un intervento da parte avversaria grazie ad un mutual understanding, uno spazio di dialogo. Dialogo che fa comodo alle controparti perché qualora fossero disponibili questi giacimenti potrebbe costituire una svolta di grande importanza economica per entrambi i Paesi. Il che vuol dire sviluppo, lavoro, benessere. Si tratta di sfruttare ciò che la pace e la stabilità possono offrire per ottenere un miglioramento a favore delle future generazioni. Tutto qui deve essere visto su una scala di futuro”.


Questioni ancora aperte: violazione dello spazio aereo libanese, i territori ancora contesi con Israele, il “non cessate il fuoco” mai ufficializzato e le risoluzioni ONU sul disarmo delle milizie armate. Come l’UNIFIL intende risolverle?


“Si verifica una violazione aerea ogni volta che c’è un attraversamento della proiezione verticale della blue line. Ma non è l’unica violazione. Ce ne sono di continue come quelle nei territori occupati di Ghajjar e delle Fattorie di Sheba’a.
Da parte di UNIFIL c’è una pressione politica attraverso un monitoraggio trimestrale che sottolinea queste violazioni territoriali e aeree a seguito delle quali vengono inviate dalle Nazioni Unite note formali ai governi violanti. Questo documento trimestrale è per noi un riferimento sulle priorità da seguire perché queste attività possono far nascere provocazioni che porterebbero ad un incremento dell’attività militare ed al collasso di tutto quello che si sta creando.
Per quanto riguarda le milizie armate, il Governo libanese sta portando avanti il ‘Dialogo nazionale’ nei confronti delle organizzazioni armate presenti sul territorio che non fanno parte dello Stato. L’Onu fornisce a questa attività una cornice di legalità e uno stimolo.
Politicamente, per ottenere il cessate il fuoco bisogna alzare il livello dell’ingaggio. Tutte le agenzie che lavorano insieme alla missione sotto l’egida Onu devono lanciare questo messaggio.
Durante gli incontri istituzionali io sottolineo l’importanza e l’esigenza di superare il livello militare e raggiungere quello politico che ha le sue difficoltà perché fa riferimento alla propria politica interna”.


Il quadro regionale si è fortemente deteriorato. Fino ad oggi il Governo libanese ha attuato una politica di “dissociazione” dalla crisi siriana. L’UNIFIL ha valutato l’impatto di una possibile espansione delle tensioni sulla “tranquillità particolare” del sud del Libano? E di conseguenza si è pensato ad un adeguamento della missione?


“Da poco si è conclusa una Strategic Review che ha mantenuto il mandato inequivocabilmente legato alla 1701, quindi alla risoluzione che vede UNIFIL a sostegno della situazione tra il Libano e Israele.
A latere di tutto c’è sempre, e d’ora in poi sarà sempre più importante, il sostegno che le NU devono dare per la protezione della vita dei civili in pericolo imminente. Siamo pronti ad intervenire da un punto di vista umanitario e non militare, perché alla base di ogni mandato delle NU c’è la protezione della vita umana.
Nell’ambito di una visione sinergica, UNIFIL darà il suo sostegno alle agenzie dell’Onu come l’UNHCR che sono già deputate a occuparsi di sostenere le esigenze della popolazione e dei profughi”.


Le attività di cooperazione sono fondamentali per consolidare il rapporto con la popolazione locale e innescare un circolo virtuoso. Quali sono le priorità in questo campo?


“L’Italia con la Cooperazione allo Sviluppo e quella Civile e Militare portata avanti dall’UNIFIL è veramente molto impegnata in questo campo.
Poi ci sono i Quick Impact Project delle Nazioni Unite, un piccolo budget alla mano del Comandante, che riesco ad impegnare per sostenere la missione, sostenendo le attività sul territorio.
Nel senso che non è il lavoro in sé ad essere importante, ma quello a cui può portare. Intervenire sul tetto di una scuola, ad esempio, per poi migliorare l’educazione. E’ l’effetto che va oltre quello più immediato dell’aiuto concreto.
Bisogna saper impiegare questi fondi non soltanto per un sostegno immediato, anche perché c’è il Governo, ma per dare una possibilità di crescita sostenibile alla popolazione.
Per me le priorità sono l’educazione, la parità di trattamento uomo-donna, e tutte le attività che hanno un substrato culturale. L’obiettivo è un miglioramento indotto a favore della qualità della vita”.


L’Italia è uno dei Paesi che ha ridotto la sua presenza in teatro. E’ solo questione di budget o significa attribuire più fiducia alle Laf (Libanese Armed Forces) e alle istituzioni libanesi nella prospettiva di un libano che riesca a camminare da solo?


“La Strategic Review ha sottolineato l’esigenza di mantenere la stessa capacità operativa ma riadattare la struttura della missione, rendendola più leggera.
Ad esempio, oggi abbiamo 63 basi, se riuscissi a diminuirle, mantenendo lo stesso numero di uomini, avrei più personale sul territorio, quindi più impatto operativo favorevole con minor sostegno logistico e con una riduzione delle ridondanze.
Dunque un recupero di budget senza ridurre l’impegno.
Così avremmo più pattuglie di UNIFIL a fianco delle Laf e posti di controllo congiunti per una maggiore interazione al fine di cedere a loro in futuro qualche compito attualmente portato avanti da noi. E questo ha anche un impatto politico.
Le Laf stanno prendendo sempre più piede nel sud; adesso hanno schierato le prime tre brigate anche se ancora nominali perché bisogna completare organico, addestramento ed equipaggiamento. Così il Governo ha dimostrato la volontà di avere una forza governativa che fino al 2006 non esisteva in quest’area.
Ma non si tratta solo di controllo della blue line, occorre farlo assicurando la stessa imparzialità di UNIFIL. Occorre ancora una crescita professionale per garantire l’equilibrio in quest’area”.


Il ritorno di un Generale italiano al vertice di UNIFIL può essere interpretato come un riconoscimento internazionale nei confronti delle nostre forze armate. Si parla di un ‘modello italiano’. Cosa rende gli italiani ottimi peacekeeper?


“Le Nazioni Unite hanno deciso di riconoscere questa leadership all’Italia sulla base di quanto bene era stato fatto nel passato e di quello che fanno i nostri uomini tutti i giorni impegnati delle missioni di pace all’estero.
Peccherei di vanità se parlassi di un modello italiano. A parlare sono i risultati del lavoro svolto quotidianamente.
Tanti i rischi ma anche tante le soddisfazioni tra cui quella di vedere questa leadership riconosciuta alla bandiera italiana.
Quella del peacekeeper è un’attività complicata: bisogna essere maturi, coraggiosi, capaci di dialogare prima di imporre con la forza le proprie idee e questo l’italiano ce l’ha innato.
Porsi con rispetto di fronte alle tradizioni e al modo di vivere degli altri paesi fa parte della cultura italiana. Siamo accettati in maniera più aperta e più sincera. E poi l’Italia è un Paese ben visto da entrambi le controparti”.


Si è insediato solo da pochi mesi, ma ha già intrapreso iniziative significative. Un obiettivo a breve termine del suo mandato?


“Il committement della comunità internazionale è la nostra forza. Avere tanti uomini di tante nazioni differenti potrebbe anche rivelarsi una debolezza sul terreno a causa delle barriere culturali.
Abbiamo tutti le stesse regole di ingaggio e dobbiamo esser bravi a far si che vengano interpretate in maniera comune e accettabile nel rispetto della popolazione che ci ospita. In questo ci sono spazi di miglioramento.
Un obiettivo che voglio raggiungere è il mantenimento di uno standard di comportamento verso la popolazione che possa essere il più uniforme possibile”.