(fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)
Sono lieta di intervenire a questa quinta edizione della Conferenza mondiale “Science for Peace”, promossa dalla Fondazione Umberto Veronesi, per riflettere insieme su come la scienza può contribuire alla pace.
Come saprete, le questioni trattate da Science for Peace mi stanno particolarmente a cuore e ho accettato di far parte del Comitato d’Onore perché sono convinta dell’importanza dei due obiettivi perseguiti dal movimento: la diffusione di una cultura di pace e la razionalizzazione della politica degli armamenti anche per favorire investimenti in ricerca e progetti di utilità sociale.
Il mondo della scienza ha molto da dirci sul problema della pace. Prima di tutto perché, come ci ha ricordato Umberto Veronesi, la scienza è un linguaggio universale che unisce donne e uomini di ogni etnia, religione, nazionalità e cultura nel comune obiettivo di migliorare le condizioni e la qualità di vita di tutti. In secondo luogo, perché la scienza è in grado di contribuire a risolvere problemi che sono spesso alla radice dei conflitti: povertà, fame, carenza cronica di risorse, epidemie.
Il tema che avete scelto quest’anno, l’Europa quale fattore di pace, è di bruciante attualità e ci riguarda tutti da vicino. Nel corso della conferenza avete analizzato in dettaglio i fattori che negli ultimi anni stanno mettendo a dura prova la convivenza pacifica in Europa, con il rischio di ripercussioni negative sul processo di integrazione europea che ha garantito pace e prosperità ad un continente per quasi sette decadi: i nazionalismi, l’intolleranza religiosa, i sistemi carcerari punitivi e la corsa agli armamenti.
Condivido queste preoccupazioni. Ho potuto constatare, come tutti voi, quanto la crisi economica e finanziaria, entrata ormai nel suo settimo anno, abbia alimentato divisioni all’interno degli Stati, tra i cittadini e le istituzioni comunitarie e tra gli stessi Stati Membri colpiti in maniera asimmetrica dalla recessione. Questo stato di tensione e di incertezza ha senz’altro qualcosa di profondamente irrazionale – come tutti i fenomeni sociali – ma poggia anche, purtroppo, su alcuni dati oggettivi e ineludibili: una disoccupazione ai massimi storici, una crescita ai minimi storici. Non dimentichiamo che questa è la prima generazione dal dopoguerra in cui i figli hanno meno possibilità economiche dei padri, infrangendo il mito del progresso lineare di generazione in generazione.
Non c’è quindi da stupirsi se, in tale contesto, ampi strati della popolazione cadono vittime di facili slogan di partiti e movimenti euroscettici, che propugnano un anacronistico quanto pericoloso nazionalismo. Il legittimo orgoglio di appartenere ad una nazione quale premessa per l’apertura, lo scambio e l’arricchimento reciproco con altri popoli viene trasformato in strumento di chiusura e di intolleranza, facendo leva sull’insicurezza, la diffidenza e il senso di smarrimento che permea purtroppo la vita di molti cittadini europei, alle prese con difficoltà economiche mai riscontrate prima.
Le ruote dell’intolleranza e della discriminazione continuano purtroppo a girare e a colpire il cuore delle democrazie del continente. Cresce il sostegno ai partiti xenofobi e populisti. Lo Stato di diritto ne esce indebolito. Lo “spread dei diritti civili” è soggetto ad un preoccupante movimento oscillatorio.
E’ quindi giocoforza constatare che la crisi che stiamo vivendo rischia di trasformarsi nella crisi dell’integrazione europea tout court. L’Europa, quando non è addirittura additata come la principale causa della recessione e delle difficoltà finanziarie – una tesi tanto assurda quanto purtroppo diffusa! – viene comunque vista da larghi strati della popolazione come una grossa macchina burocratica e tecnocratica che è strutturalmente incapace di fornire risposte rapide ed efficaci. La conclusione è impietosa: se una maggiore integrazione genera disoccupazione, povertà e un debito insostenibile, allora è necessario “fare un passo indietro” e “reassess” l’intero esercizio.
Al di là di tali percezioni, la crisi ha invece dimostrato che è necessaria più Europa – non meno – per fronteggiare le sfide poste da un mondo sempre più globalizzato. E’ stata proprio l’incapacità dell’UE di agire con gli stessi strumenti di uno Stato federale come gli Stati Uniti che ha impedito una “soft recovery” simile a quella d’oltreoceano. La crisi ha quindi messo a nudo prima di tutto gli insuperabili limiti di un “approccio funzionale” che ha ormai esaurito la sua funzione storica. Così come la convivenza familiare non può basarsi solo sulla convenienza economica di vivere sotto lo stesso tetto, l’Europa è destinata a sfaldarsi se i pur indispensabili progetti di integrazione economica e unione bancaria e monetaria non vengono sorretti da un progetto politico di ampio respiro.
Stiamo capendo dove si annidano le debolezze di un processo di integrazione che – pur rimanendo una straordinaria storia di successo – merita di essere inserito in una cornice politica, reso più vicino alle esigenze dei cittadini e maggiormente interconnesso con uno scenario globale in costante mutamento.
Oggi suonano più che mai attuali le parole di Jean Monnet: “Gli uomini non accettano il cambiamentose non per necessità e non vedono la necessità se non quando una crisi li travolge”. Abbiamo preso coscienza della necessità di cambiamento.
E’ giunto quindi il momento di cambiare! Ma per farlo dobbiamo mutare approccio. Lo ripeto: il metodo funzionalista del fare l’Europa è ormai giunto al capolinea. Dobbiamo ritrovare una visione. La stessa che fu dei padri fondatori, riadattandola alla realtà ed alle esigenze del XXI. E’ giunto il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Dobbiamo ritrovare un progetto politico coraggioso che non si pieghi alla logica dei compromessi al ribasso.
Se vogliamo avere un peso, se vogliamo far sentire la nostra voce – parlare con una sola voce – ed essere portatori di quei valori umani e sociali che infondono la nostra storia di civiltà, dobbiamo pensare in grande. Dobbiamo lasciarci alle spalle l’Europa delle patrie – antistorica e litigiosa su tutto- e costruire la “patria europea”.
Dobbiamo fare- come disse per primo Jean Monnet, non dimentichiamolo – gli Stati Uniti di Europa! Non lo dico per convenienza ma per convinzione e da tempo. L’alternativa è la condanna all’irrilevanza politica ed economica al cospetto del mondo multipolare con cui siamo oggi chiamati a confrontarci.
Per parte mia ho proposto qualche anno fa una federazione leggera, declinata secondo i criteri indicati da Monnet, Adenauer, Spinelli ma – come ho già ricordato – riadattata alle esigenze dei nostri tempi. Una federazione con un bilancio di appena il 5% del Pil europeo che permetta di mettere in comune quattro o cinque settori. Nulla a che vedere con un Superstato. Il resto va lasciato alla sussidiarietà. Insieme dobbiamo fare le cose che contano: esteri, difesa, sicurezza, fiscalità, tesoro, ricerca, infrastrutture e, aggiungo, anche l’immigrazione.
Federalismo significa infatti equilibrio tra le esigenze della Federazione nel suo complesso e le esigenze degli Stati membri, con una struttura decisionale diffusa, reticolare, in cui il governo federale si limita a definire la strategia generale, ad esercitare un’azione di coordinamento e ad assumere direttamente solo alcune funzioni essenziali di governo, mentre per le restanti materie gli Stati membri mantengono la piena autonomia decisionale, da condividere ovviamente con gli enti locali sulla base del principio di sussidiarietà. I timori per la costruzione di un “super-Stato” europeo sono quindi del tutto infondati, dato che ogni “livello” di governo avrebbe delle competenze molto precise che non potrebbe travalicare.
In tema di politica estera, è ormai evidente che nessuno Stato europeo, nemmeno il più grande, è oggi in grado di avere una “systemic relevance” da solo. L’Unione Europea è prima di tutto, se mi passate l’espressione, una “necessità geopolitica”, l’unico “strumento” capace di assicurare agli Stati europei una reale capacità di influenza in un sistema internazionale sempre più caratterizzato dalla presenza di grandi Stati e di grandi blocchi regionali. Insieme siamo non solo il più grande blocco economico-commerciale del pianeta, ma anche un attore internazionale dotato di straordinario “soft power”, che potrebbe forse più di ogni altro contribuire alla pace e alla sicurezza internazionale, alla promozione dei diritti umani e allo lotta contro la fame e la povertà.
Dobbiamo quindi riscoprire questa nostra missione, questa nostra vocazione globale, e avere il coraggio di approntare gli strumenti adeguati per sostenerla. Ce lo chiedono i nostri stessi alleati, a cominciare dagli Stati Uniti, ma anche i popoli in difficoltà nei maggiori conflitti internazionali, che beneficerebbero di un’Europa più forte ed autorevole, con la sua tradizionale capacità di mediazione e l’assenza di aspirazioni egemoniche.
So che il tema della difesa europea è stato ampiamente trattato nell’apposita tavola rotonda. Mi hanno colpito – ma fino ad un certo punto – i risultati della ricerca IAI citata da “Science for Peace” secondo cui la razionalizzazione dell’esercito europeo in un’unica forza con gli stessi standard delle Forze Armate USA consentirebbe un risparmio fino a 120 miliardi di euro, di cui 14 miliardi per la sola Italia. Si tratta di cifre da capogiro, che sottolineano la clamorosa inefficienza non solo di 28 eserciti nazionali ma, più in generale, di 28 programmi concorrenti in qualsiasi settore che può beneficiare di considerevoli economie di scala. Un appuntamento fondamentale per fare avanzare l’agenda europea su questi temi è costituito dal Consiglio Europeo di difesa del dicembre 2013.
Un altro di questi settore in cui dovremmo essere in grado di unire le forze a livello europeo è quello della ricerca. La pulviscolarità dei centri di ricerca europei, suddivisi in 28 centri nazionali di riferimento, fa sì che nonostante la straordinaria competenza dei nostri scienziati – che non hanno nulla da invidiare a quelli americani o giapponesi – i risultati sono spesso inferiori alle potenzialità, perché non possono contare su una massa critica di investimenti e sulla sinergia di progetti ad ampio respiro.
Infine, per quanto riguarda energia e infrastrutture, una gestione sovranazionale è praticamente indispensabile se vogliamo dotarci di una rete efficiente di impianti e di assi pan-europei capaci di attirare flussi di investimenti e di restituire competitività alle imprese di tutto il continente.
L’Italia quindi intende imprimere impulso alla prospettiva federale. Il 1° luglio 2014 inizia il semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea: una data che assume un’importanza maggiore in quanto coincidente con l’insediamento del nuovo Parlamento Europeo dopo le elezioni del 24-25 maggio. Sotto il semestre di nostra Presidenza avverrà anche il rinnovo della Commissione, l’elezione del suo Presidente e l’elezione del Presidente del Consiglio Europeo.
Si aprirà quindi un nuovo ciclo in cui il progetto federale potrà essere posto al centro del dibattito pubblico e politico. Sono convinta che sapremo quando i leader europei staranno seriamente facendo passi avanti per risolvere i problemi a lungo termine: quel momento sarà quando, rompendo un tabù, useranno la parola “federalismo” pubblicamente e apertamente, motivando i pro e i contro di un’Europa federale in termini comprensibili per i cittadini.
Le parole di Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo, dal Manifesto di Ventotene del 1942 al progetto di Trattato dell’Unione europea, saranno per noi un punto di riferimento: “Nella battaglia per la costruzione dell’Europa è stata ed è tuttora necessaria una concentrazione di pensiero e di volontà per cogliere le occasioni favorevoli quando si presentano, per affrontare le disfatte quando arrivano, per decidere di continuare quando è necessario”.
Concentrazione di pensiero dunque, ma anche e soprattutto volontà di azione. Due concetti ai quali si ispirerà il semestre di Presidenza italiana anche per la definizione di una piattaforma funzionale all’avvio di una nuova fase di integrazione.
La difficoltà e la complessità dei problemi da affrontare ci pongono davanti ad un bivio: fare un salto qualitativo, accelerando l’integrazione politica oppure accettare la diluizione, l’inevitabile declino e la perdita di peso politico ed economico del Vecchio Continente sulla scena internazionale.
Solo la prima soluzione può permetterci di avere un’Europa più forte e capace di intervenire in maniera rapida ed efficiente alle tante crisi, endogene ed esogene, cui ci troviamo di fronte. Ma poter ben gestire le crisi esogene dobbiamo prima superare quella endogena. La crisi di un modello europeo che ha ormai fatto il suo corso e che richiede oggi un salto di qualità, una visione nuova e coraggiosa. La sfida sarà complessa. La strada irta e piena di ostacoli. Ma il traguardo – ne sono certa – sarà appagante.