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Discorso dell’On. Ministro al Convegno “L’Italia, l’Europa ed Helmut Kohl” – Senato, Palazzo Giustiniani

(Fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)

Grazie Presidente Casini per l’opportunità che ci ha dato e che mi ha dato di partecipare a questa commemorazione.

Signor Presidente emerito Napolitano, signor Presidente del Senato Grasso, signor Presidente Monti e cari tutti voi, a cominciare dall’Ambasciatrice di Germania, che siete qui per commemorare un grande uomo, un grande uomo di Stato, un grande tedesco e un grande europeo,

penso che poche volte nel commemorare gli uomini ci si trovi di fronte a una biografia così vasta che è sintetizzabile dall’enormità di poche immagini. La biografia di Helmut Kohl è un muro che cade, la biografia di Helmut Kohl è l’estasi e la gioia di ragazzi che salgono su quel muro mentre quel muro cade, la biografia di Helmut Kohl è una foto di spalle, le spalle alla Seconda guerra mondiale, le spalle ai crimini di quella guerra, con una stretta di mano, come quella che scambia in chiesa, al cimitero di Verdun, con un altro uomo di Stato, con François Mitterrand. Tre fotografie che raccontano un’idea di Europa, un’idea di pace, un’idea di prosperità, un’idea di libertà.

La mia generazione è in debito con la storia, perché ha conosciuto solo la pace, la prosperità, la democrazia e la libertà. È sufficiente passare alla generazione di mio padre  io sono nato nel 1970, mio padre è nato nel 1936 − per scoprire che giusto alla generazione prima della mia appartengono persone, bambini che hanno conosciuto la guerra. A quella apparteneva Helmut Kohl, alla generazione di chi da bambino e da adolescente ha conosciuto la guerra. In Italia la generazione di mio padre ha conosciuto la guerra vedendo lo sbarco degli americani in Sicilia, la generazione di Helmut Kohl che ha vissuto la guerra l’ha conosciuta dalla Germania, e siccome ciascuno di noi è portatore nella propria anima dell’esperienza che si costruisce da bambini, sono sempre stato convinto che la biografia di Kohl sia stata fortemente alimentata da un’adolescenza vissuta da tedesco in una Germania che probabilmente lui non voleva fosse quella. E certamente ha voluto per l’intera sua vita rimettere la Germania nel posto giusto della storia.

Alla fine della sua vita, quando a Strasburgo, nell’occasione del primo funerale di Stato europeo, i leader di tutto il mondo lo hanno commemorato, sono emerse alcune cose essenziali che nel mio cuore si sono scolpite come se fossero impresse a fuoco. La prima: ha lasciato un mondo migliore. Piccola parentesi: ciascuno degli uomini e delle donne che sono impegnati nelle istituzioni e che hanno sentito da ragazzi la vocazione alla passione pubblica, al servizio pubblico, si sono dati certamente la missione di lasciare un mondo migliore, ma quanti possono dire con delle foto di avere lasciato un mondo migliore, di avere contribuito con dei fatti assolutamente inopinabili a lasciare un mondo migliore? Helmut Kohl appartiene a quel numerus davvero clausus di persone che possono dire di avere lasciato un mondo migliore rispetto a come lo hanno trovato perché lo hanno costruito quel mondo migliore.

La seconda considerazione è che Kohl ha avuto passione per costruire quel mondo migliore, e quando è morto ha lasciato la sua Germania unita, il suo Paese unito, buon amico dei vicini e in grande amicizia con il resto del mondo. Quando aveva cominciato a governare non era così.

Per me personalmente Helmut Kohl ha una collocazione importante, perché appartengo esattamente, dal punto di vista anagrafico, a una generazione, cui mi riferivo prima, che non è quella dell’immediato dopoguerra. Non ho il privilegio di averlo conosciuto, non ho il privilegio di averlo studiato sui libri della mia scuola, perché ai tempi della scuola Kohl era per me “la Germania”, è diventato cancelliere quando io andavo in seconda media e ha smesso di fare il cancelliere di fatto quando io ero laureato in giurisprudenza, avvocato e dottore di ricerca. Questo è l’arco temporale in cui lui ha governato la Germania, per cui per me e per la mia generazione semplicemente Helmut Kohl era la Germania, punto.

Ma cosa ha rappresentato Kohl più a fondo ancora che “la Germania”? Vedete, la generazione che ha conosciuto sempre la pace porta con sé una sensazione di debito, perché non ha combattuto per la libertà, ma qualcun altro è morto per regalarci la libertà, perché non ha combattuto per la pace, ma qualcuno è morto per darci la pace, perché non ha combattuto per il benessere, ma lo ha trovato, giungendo immediatamente dopo il boom industriale ed economico italiano. Quando si smette di interrogarsi per che cosa si è grati − si è grati per la pace, abbiamo detto, per la libertà, per la prosperità, per la democrazia e a qualcuno che è morto per regalarcela − e si comincia invece a chiedersi a chi esser grati, allora la nostra storia, la storia Patria, Patria d’Italia e Patria europea, ci racconta e ci spiega che dobbiamo esser grati a De Gasperi, ad Adenauer, a Shumann, a quegli uomini che ebbero la visione e la forza di costruire la pace. Quegli uomini lasciarono un debito a loro volta, lasciarono una pendenza, la pendenza di un check point chiamato Charlie, lasciarono un debito, un muro, perché non ce la fecero ovviamente, perché non si poteva fare di più a quel tempo e in quel momento della storia. Ecco, Helmut Kohl ha saldato quel debito con la storia, e si colloca come il primo grande statista tra gli uomini di Stato delle generazioni post belliche, non della prima, ma di quella dell’intermezzo, la generazione della fascia temporalmente centrale tra l’Europa di oggi e quella dell’immediato secondo dopoguerra, cioè di coloro i quali fecero progredire la pace.

Il messaggio etico della pace sta nel suo non essere solo “assenza di guerra”, ma essenzialmente costruzione di un destino comune. Se allora la generazione post bellica dei primi grandi statisti europei, dei quali noi siamo fieri e orgogliosi, costruì quella pace cancellando la guerra e mettendo il seme di un raccolto che arrivò dopo, l’altro seme, decenni dopo, lo piantò e ne raccolse in parte il frutto − privilegio di pochi nella storia − proprio Helmut Kohl. Innanzitutto perché credette nel fatto che la Germania dovesse essere fortemente europea, e in secondo luogo perché credette in un qualcosa che è tipica dei grandi democratici cristiani, e cioè nell’idea di un libero mercato che non risolve tutti i problemi, ma che lascia dei poveri, e che di quei poveri non si può fare a meno nella missione di un politico, perché fin quando c’è la povertà c’è una missione per un politico cristiano. Ecco, questa è l’idea che fondò l’economia sociale di mercato come modello di sviluppo dell’Europa moderna. Idea che poi l’Europa ha in qualche modo abbandonato nel processo di integrazione, ed è la ragione per cui la dichiarazione di Roma riscopre la vocazione di un’Europa sociale che nell’unità non può perdere la dimensione sociale, perché quando l’Europa smarrisce la dimensione sociale, smarrisce milioni di giovani disoccupati europei, smarrisce l’idea di un destino comune e dà spazio al rischio di questo nostro tempo, ossia la rinascita di quei nazionalismi che furono definitivamente sconfitti con quella caduta del muro che rappresentò la missione e la memoria storica di Helmut Kohl.

Ecco perché questa generazione nuova, i leader europei tra cui si ascrive anche il nuovo Presidente della Francia, ha una responsabilità enorme, perché è la responsabilità del lascito di Kohl, e la generazione chiamata a raccogliere il lascito di Kohl, se tutto quello che abbiamo detto è vero, non può raccogliere solo ciò che di bene viene da quel lascito, ma anche l’enorme responsabilità di provvedere ai bisogni di oggi, e che nascono dal primo grande rischio della storia del processo di unificazione europea, e cioè che l’Europa per decenni ha avuto “la fila dietro la porta” di Paesi che volevano entrare nell’Unione e adesso ne ha uno che vuole uscirne, anzi che ha già deciso di uscirne. Mentre noi facciamo un lavoro di negoziato doloroso sulla Brexit abbiamo a un altro uscio i Paesi dei Balcani occidentali che vogliono entrare nell’Unione, e questa sfida, che è quella di un processo di integrazione che tende insieme, ancora una volta, come la missione dei Padri fondatori De Gasperi, Shumann e Adenauer, alla pace e alla prosperità, è la missione di oggi, perché una pace senza prosperità, una pace che crea disoccupazione rischia di creare quel germe del nazionalismo che è assolutamente il rischio di questo nostro tempo. Kohl lo aveva intuito bene quando, in anni non lontanissimi, aveva detto: «gli spiriti maligni non sono stati banditi per sempre dall’Europa. Ad ogni generazione si pone nuovamente il compito di impedire il loro ritorno, di superare i pregiudizi e di far cadere i sospetti».

Penso che l’Europa di oggi abbia alcuni pregiudizi da vincere e sospetti da superare, e penso anche che la grande lezione di Helmut Kohl sia la lezione dell’inclusività: se vuoi vincere un pregiudizio e superare i sospetti sii amico del tuo vicino di casa, mettilo con te nel processo, fai in modo tale che anche lui abbia la tua stessa fede, non dargli mai l’impressione che qualcuno guadagni sempre e qualcuno invece perda sempre nel programma comune.

Penso ancora che il lascito di questa Unione europea sia un lascito di passione e di visione insieme, una passione e una visione che servono all’Europa oggi come servirono all’Europa nell’immediato dopoguerra e come servirono alla Germania negli anni della caduta del muro. Facendo cadere quel muro la Germania servì l’intera Europa, la servì con la passione e con la visione di uno statista. Io credo che il compito sia fare tesoro di quella passione e quella visione.

Vi ringrazio.

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