L’ isolamento diplomatico della Siria è scattato ieri (oggi Annan riferisce sulla situazione in Consiglio di Sicurezza via teleconferenza) contemporaneamente in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Nel corso della giornata anche Usa, Canada, Australia hanno espulso gli ambasciatori siriani. A Roma l’ambasciatore della Siria, Khaddour Hasan, è stato convocato dal ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata.
Ministro Terzi, così l’Italia risponde al massacro di Hula?
«Pochi minuti fa (ieri per chi legge, ndr) è venuto qui alla Farnesina l’ambasciatore siriano per ricevere la notifica del provvedimento di “persona non grata”,una misura concordata con altri partner europei. Le condanne da sole non bastano più e agli orrori di Hula occorreva reagire con un messaggio forte e inequivocabile al regime di Damasco. Sulla Siria va detto che si tratta di una tragedia che dimostra la portata reale, drammatica, di attuare gli impegni che abbiamo preso in mezzo secolo per “maturare” le coscienze e rispettare l’uomo. Siamo profondamente insoddisfatti per la mancata applicazione del Piano Annan da parte del governo siriano. Le violenze devono cessare immediatamente e completamente e tutti i punti previsti dal Piano congiunto di Lega Araba e Nazioni Unite devono essere rispettati, a cominciare dal libero e incondizionato accesso per le organizzazioni umanitarie»
In quindici mesi, 9 mila morti accertati, quasi tutti civili; decine di migliaia di profughi interni, il Consiglio nazionale siriano che chiama l’esercito libero a combattere e lancia un appello ai fratelli arabi e agli amici per avere sostegno, cioè armi. Il cessate il fuoco è sempre più lontano e ha ragione chi dà per morto il Piano di Kofi Annan?
«Non parlerei di un allontanarsi del cessate il fuoco, la situazione è molto più grave: la cessazione totale delle violenze contro la popolazione civile è solo una delle sei condizioni del Piano Annan che fino ad ora non è mai stata soddisfatta, così come le altre, tra l’altro l’accesso per le organizzazioni umanitarie e la libertà di circolazione dei giornalisti. La responsabilità per la mancata esecuzione del Piano ricade principalmente sul regime di Damasco e sulla evidente decisione di non collaborare con Onu e Lega Araba».
Domani lei sarà a Istanbul per parlare di Somalia. Ma ha chiesto al suo omologo turco, Davutoglu, di inserire nei colloqui anche la crisi siriana: in vista di alleanze per una presa di posizione più decisa in ambito Onu, magari cercando una strada per appellarsi alla «responsabilità di proteggere» senza passare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e aggirando il veto russocinese?
«Nessuna opzione va esclusa per principio, ma per ora l’unica via che l’Italia e la comunità internazionale stanno perseguendo è quella tracciata dal Piano Annan, che dobbiamo continuare a sostenere con convinzione. Ne ho parlato a New York con Ban Ki-moon, in queste ore con il mio collega turco e con gli altri principali partner. E ne parleremo certamente a IstanbuL Purtroppo sembra essere proprio Assad a spingere il confronto verso altre soluzioni, forse perché crede che il Piano resti aperto all’infinito. Se è così, sarà inevitabile tornare in Consiglio di Sicurezza per valutare tutti i possibili scenari in base al principio – ormai acquisito – dell’obbligo che ogni Stato ha, di fronte alla comunità internazionale, di proteggere la propria popolazione e delle conseguenze di una prolungata violazione».
Il premier israeliano Netanyahu, dopo Hula ha rotto il silenzio dicendosi disgustato dal massacro. Lei conosce bene la realtà israeliana: significa che lo stand by è finito?
«Significa che nella storia ci sono fatti tragici, orribili che segnano una svolta nel corso degli eventi e nel modo in cui la comunità internazionale reagisce: di fronte alle decine di bambini trucidati a sangue freddo si sente l’obbligo morale di fare di più».
Come giudica la proposta di Obama per una «soluzione yemenita», cioè togliere il solo Assad dal potere lasciando l’entourage? Nonostante le assicurazioni fatte a Medvedev a Camp David che, nel caso, non sarebbe toccata l’influenza russa sulla Siria, l’idea sembra essere stata rimandata al mittente. Lei sembra però convinto del contrario e ha parlato di uno spazio di dialogo russo-americano in margine all’incontro G20 in Messico che si aprirà il 18 giugno.
«Come ho detto, nessuna ipotesi può essere esclusa. Tanto meno uno scenario quale quello yemenita che consentisse un’uscita di scena di Assad e l’avvio di una soluzione politica. Sarebbe cruciale avere nell’opposizione un interlocutore affidabile e rappresentativo delle componenti sociali, etniche e religiose della Siria. Nelle scorse settimane abbiamo ospitato a Roma la riunione del Consiglio nazionale siriano proprio per favorire un dialogo interno e sono effettivamente emerse aperture verso la componente cristiana. Ora però le dimissioni del presidente del Consiglio nazionale siriano, che raggruppa l’opposizione, Ghalioun, sono un segnale non positivo, un appello alla comunità internazionale a sostenere ancora di più il movimento di opposizione al regime».
È guerra civile, anche se nessuno la chiama cosi. Ma la situazione in Siria sembra essere già oltre. Lei stesso ha parlato di situazione favorevole a ogni infiltrazione terroristica tendente a destabilizzare un’area più vasta. Tra l’altro, noi abbiamo uomini in Libano. Che rischi vede?
«Tecnicamente si parla di “spill over”, un potenziale contagio dell’instabilità all’esterno della Siria. Più a rischio è il Libano, dove già vi sono state violenze nella città di Tripoli e dove, come sottolinea lei, sono presenti nostri militari nel quadro Unifil. Ma l’esportazione della crisi può muoversi anche in altre direzioni attraverso i flussi di profughi verso Stati confinanti come Turchia e Giordania. Per questo motivo, proprio alla frontiera tra Giordania e Siria, d’intesa con le autorità di Amman, la nostra Cooperazione sta per inviare un ospedale da campo».
A Istanbul, parlando di transizione in Somalia, toccherete anche il tema della pirateria?
«Parleremo dei rischi dell’instabilità di un Paese da cui dipende la sicurezza del Corno d’Africa. Tra i rischi, favorire il radicamento di organizzazioni terroristiche come quelle che hanno sequestrato nostri connazionali nel Sahel sul caso Rossella Urru stiamo lavorando senza sosta. I terroristi si finanziano anche con la pirateria nell’Oceano Indiano. Per questo è inaccettabile che importanti Stati costieri come l’India abbiano comportamenti che di fatto indeboliscono la collaborazione internazionale, stabilendo precedenti che rendono meno certo il quadro normativo entro il quale la lotta antipirateria si svolge. Abbiamo perciò portato il caso dei nostri marò, della esclusiva giurisdizione dello Stato di bandiera sulle navi in acque internazionali e dell’immunità dei nostri militari in quanto organi dello Stato, in tutti i Fori internazionali a cominciare dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite».