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Dettaglio intervista

Caro direttore, alla metà degli Anni 30, l’ambasciatore britannico in Finlandia scrisse, in un suo messaggio a Londra, di avere conosciuto la signora Ruth Bryan Owen, ambasciatore americano a Copenhagen dal 1933 al 1936. II capo missione britannico ammise che «si può parlare con lei come se fosse un uomo»; ma aggiunse subito, con una dose non celata di soddisfazione: «la signora Bryan Owen deve decidere se trasferirsi a Panama o sposarsi. Ha già scelto, mi pare, la seconda opzione». E passato quasi un secolo: ma la scelta fra Panama e sposarsi, fra lavorare al top della carriera diplomatica o dedicarsi ai figli, resta problematica per le donne. La prima segretario di Stato americana, Madeleine Albright, ha sempre sostenuto che le donne «can have it all» (possono avere tutto), se si organizzano e vogliono farcela. Hillary Clinton è della stessa scuola, ma è consapevole che, per farcela, le donne vanno seriamente aiutate con politiche pubbliche. Non a caso, Hillary Clinton ha lanciato nel dicembre scorso un importante Progetto per aumentare il numero delle donne nell’amministrazione pubblica, a cominciare dal Dipartimento di Stato. Da ultimo, il messaggio che le donne occidentali della mia generazione (le figlie del baby boom) hanno cercato di trasmettere alle proprie figlie – potete lavorare bene e farvi una famiglia, se solo vi impegnate seriamente – è stata infranto da Anne Marie Slaughter, ex responsabile del Policy Planning. In un discusso saggio su «The Atlantic», Slaughter ha rotto il tabù: non è vero che le donne possono conciliare tutto. Quando diventano una top leader (che si tratti di politica, governo, impresa) perdono qualcosa o perdono molto sul lato figli. E viceversa. Credo che Anne Marie Slaughter abbia ragione. Ha ragione perché il problema di «conciliare» carriera professionale e vita famigliare è lasciato, ancora in larga misura e in troppi paesi, alle risorse individuali. Alle risorse personali, di carattere ed economiche: ma non tutte le donne possono essere, per riuscire, «super women». Mentre è indubbio che le nostre società abbiano bisogno, per diventare più efficienti e più vitali, di donne che lavorano e di donne che, al tempo stesso, possano fare e curare i propri figli. Aiutarle a combinare i due obiettivi è quindi essenziale. Questa è una delle ragioni per cui abbiamo deciso, come ministero degli Esteri italiano, di organizzare una «gamba europea» del Progetto di Hillary Clinton. La Conferenza internazionale di oggi a Roma (Women in Diplomacy) è l’avvio di uno sforzo per aumentare il numero delle donne nelle amministrazioni pubbliche e nelle carriere internazionali. Uno sforzo che coinvolgerà, attraverso una Winter School organizzata dalla Sioi e da Ispi, le giovani colleghe dei paesi del Nord-Africa. Non sarà certo semplice: i cambiamenti di mentalità, come dimostra il messaggio britannico del secolo scorso, richiedono tempo, convinzione e costanza. Posso ammettere senza difficoltà, io per prima, che organizzare la Conferenza mi è servito molto: ho finalmente conosciuto e parlato con le diplomatiche più giovani del Mae, trovandomi di fronte a donne consapevoli dei loro doveri ma anche del loro diritto a «have it all». O almeno a provarci: ad andare in una sede all’estero senza perdersi per strada figli e marito. Possiamo aiutarle. In parte lo stiamo già facendo. In parte, dobbiamo ancora trovare, con scelte non così difficili da immaginare, una capacità di leadership più «umana». Più adatta alle donne ma in fondo – ne sono convinta – anche agli uomini. E non è escluso che per questa via diventi anche una leadership migliore.

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