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Dettaglio intervista

Imprenditori italiani, andate in Serbia. L’appello, accorato, è del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, 66 anni, e arriva dopo il suo viaggio a Belgrado dove ha incontrato i nuovi leader del Paese. Quelli il cui curriculum ha suscitato allarme nelle cancellerie. Tomislav Nikolic, il presidente, 60 anni, ex guardiano di cimiteri (da qui il nomignolo di “Becchino”), fu uno dei fondatori del partito radicale ultranazionalista, accusato, ma mai condannato, anche di pulizia etnica in Croazia, oggi guida il partito Progressista da lui creato e che raccoglie molti nostalgici del passato. Il primo ministro Ivica Dacic, 46 anni, è stato il capo dei giovani socialisti e portavoce di Slobodan Milosevic durante i bombardamenti della Nato nel 1999: non ha mai rinnegato il vecchio mentore morto in carcere mentre era sotto processo all’Aja.


Nonostante l’ingombrante passato, Terzi ne ha ricavato l’impressione di «grande affidabilità». E non nutre nessun timore che la Serbia possa intraprendere una strada a ritroso e riemergano i fantasmi di una chiusura etnica che tanti lutti ha provocato, nell’ultimo ventennio. Anzi, la Serbia può essere, per noi, quello che è stata la Romania: un luogo dove investire e fare ottimi affari. Alcuni dati sono incoraggianti. Ci sono già, nel Paese, 500 aziende a partecipazione italiana che danno lavoro a 20 mila dipendenti (il 2 per cento della forza lavoro totale). Il più grande investimento estero è quello della Fiat che nel polo di Kragujevac ha impegnato un miliardo di euro, incluso l’indotto, per produrre la 500L che sarà in commercio a partire da settembre. A regime ne saranno fabbricati 200 mila esemplari l’anno con 2.500 dipendenti. Intesa Sanpaolo e Unicredit detengono il 25 per cento del mercato bancario, Generali e Sai-Fondiaria (storicamente orientate ai Balcani) il 45 per cento di quello assicurativo. Il gruppo Benetton sforna a Nis 6 milioni di capi. Pompea, Golden Lady, Calzedonia sono altri marchi presenti. L’Italia è il terzo partner commerciale, dopo Russia e Germania. L’interscambio bilaterale è cresciuto nel 2011 del 15 per cento per un totale di circa 2 miliardi di euro (esportiamo per 1,159 miliardi e importiamo per 855 milioni).


Se molti capitani d’industria si sono mossi verso Belgrado è per via di un costo del lavoro basso, con uno stipendio medio di 352 euro, e un regime fiscale favorevole. L’imposta sulle società è del 10 per cento, con esenzione totale per le newco che impiegano più di 7,2 milioni di euro e assumono almeno cento dipendenti. Sono esenti da Iva molti servizi (bancari, assicurativi, finanziari). Ci sono sette zone franche e servono in media 13 giorni per aprire un’attività. È molto faticoso, invece, ottenere un permesso di costruzione e oppressiva la burocrazia legata al pagamento delle tasse.


Giulio Terzi ha dato alla Farnesina un forte orientamento economico, a sostegno del sistema Paese all’estero. Per questo la Serbia, così vicina e con opportunità non ancora esplorate, è un terreno fertile, da coltivare, in virtù di relazioni diplomatiche antiche e di una simpatia che non è venuta meno nemmeno quando Roma ha appoggiato l’intervento militare Nato. In questa intervista con “l’Espresso”, il ministro parla soprattutto di economia. Ma anche in generale della nostra politica nei Balcani.


Ministro Terzi perché bisogna fidarsi del presidente Nikolic nonostante il curriculum?


«Ho avuto l’impressione di grande affidabilità. Il suo è un governo di coalizione e su un tema fondamentale come quello del cammino verso l’adesione all’Unione europea ho ricevuto tutte le rassicurazioni, perché questo è l’obiettivo del mandato, in continuità col predecessore Boris Tadic».


Però la vittoria del nazionalisti ha creato forti preoccupazioni nelle cancellerie. E alcuni imprenditori si chiedono se i loro investimenti non siano a rischio.


«Non ne vedo il motivo. Il governo appena nato rappresenta un punto di equilibrio. Il primo ministro Ivica Dacic è stato si portavoce di Milosevic ma ha fatto parte per quattro anni del governo con Tadic. Mi sembra un pragmatico orientato al business, consapevole che bisogna garantire gli imprenditori. Lo stesso ministro degli Esteri Ivan Mrkic era un ambasciatore, dunque un tecnico, anche se fa parte di un governo politico».


Perdoni la digressione personale. Un percorso che potrebbe compiere anche lei dopo questa esperienza con Monti? Esplicitamente, pensa a una carriere da politico, dopo?


«Dopo voglio solo ritirarmi nella mia Bergamo (ride, ndr.)».


Tornando alla Serbia. Lei consiglierebbe oggi di investire in quel Paese?


«Assolutamente sì. Sul piano della legislazione non ci sono stati contenziosi particolarmente importanti, episodi clamorosi come è avvenuto altrove».


E il famoso caso Telekom Serbia con tanto di giro di tangenti per gli “Italiani” non ha lasciato strascichi?


«Si è trattato di una questione difficile ma non ha condizionato negativamente la nostra presenza. Che è sempre più gradita. Per il futuro potremmo sfruttare le occasioni enormi che si aprono a Belgrado».


In quali settori?


«L’accordo energetico bilaterale firmato a Roma il 25 ottobre 2011 apre interessanti prospettive per la realizzazione di impianti idroelettrici sui fiumi Ibar e sulla Drina media, affidati all’italiana Seci-Maccaferri in partnership con l’operatore serbo Eps. A giugno abbiamo anche firmato un memorandum d’intesa per la collaborazione in campo energetico e per le rinnovabili. Manca la ratifica del governo serbo, ma ho ricevuto rassicurazione che avverrà in breve. Ci saranno poi le gare aperte per grandi opere strutturali come la metropolitana di Belgrado e l’ammodernamento della tratta ferroviaria Belgrado-Bar e importanti gruppi italiani si stanno adoperando per aggiudicarsi la realizzazione».


Quali?


«Impregilo, Astaldi, tutti i più grossi».


Lei dice: andate in Serbia. In un momento di crisi economica profonda, la parola delocalizzazione suona sgradevole alle orecchie di chi non ha lavoro da noi.


«La creazione di attività produttive in paesi vicini, come la Serbia, o lontane, come l’India o il Vietnam, è mirata spesso a cogliere opportunità di sviluppo in mercati dove certamente si impiega manodopera locale, ma poi generano un considerevole rafforzamento della solidità delle nostre industrie in patria. È quello che io chiamo l’aspetto positivo della delocalizzazione. Non voglio essere tacciato di eccessivo ottimismo ma mi sembra questa la miglior lettura di un fenomeno che si sta sviluppando rapidamente e che merita di essere cavalcato. Anche perché non va mai dimenticato che il nostro export ha una dinamica completamente diversa dall’andamento dell’economia interna. Nell’ultimo decennio l’export è cresciuto di quasi il 45 per cento (86,8 nell’agroalimentare) raggiungendo nel 2011 i 376 miliardi di euro a fronte di una crescita del Pil nello stesso periodo pressoché vicina allo zero. Per fare un parallelismo, e sempre per vedere il bicchiere mezzo pieno, la stessa cosa riguarda quella che viene definita “fuga di cervelli”, frase che viene vissuta in modo offensivo dagli stessi interessati. Il rovescio della medaglia è il fatto che molto spesso i ricercatori all’estero mantengono rapporti con l’Italia e allora quella “fuga di cervelli” diventa la moltiplicazione delle capacità di crescere a livello scientifico per l’intero nostro Paese».


Nella sua piattaforma per i Balcani è scritto che bisogna ridurre la presenza del nostri soldati. Le missioni in Bosnia e Kosovo durano rispettivamente dal 1996 e dal 1999. Riduciamo i soldati perché non ce n’è più bisogno o perché non ce lo possiamo più permettere in tempo di spending review?

«Li ridurremo quando non ce ne sarà più bisogno. Certo l’impegno finanziario è gravoso. Ma la presenza del contingente è decisiva per impedire che le posizioni tra gli ex belligeranti si polarizzi e possa precipitare in un nuovo conflitto. Tra l’altro, come è noto, la presenza degli italiani è apprezzata da tutte le parti in causa».