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Dettaglio intervista

«Non esiste una soluzione militare alla crisi siriana. Ed una soluzione politica passa necessariamente per un coinvolgimento della Russia. Questa resta una strada in salita, ma è un passaggio obbligato anche per realizzare quella missione di peace-keeping che l’Italia auspica da tempo». A sostenerlo è il ministro degli Esteri, Giulio Terzi. L’Unità lo ha intervistato di ritorno dalla riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri Ue in Lussemburgo.


Signor ministro, l’inviato speciale dell’Onu e Lega Araba per la Siria, Lakhdar Brahimi, pensa ad una missione dl peace-keeping in Siria. Qual è in proposito la posizione dell’Italia?


«Ben prima di Brahimi, è stata l’Italia, ed io personalmente, ad auspicare una missione significativa di peace-keeping in Siria. Una missione che continuiamo ad auspicare. Ma perché ciò possa accadere c’è bisogno di un via libera del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come è avvenuto per il Libano, e ciò comporta necessariamente un coinvolgimento della Russia nella ricerca di una soluzione politica alla crisi siriana».


Una strada in salita…


«Purtroppo è così ma resta una strada obbligata. Di Siria si è molto parlato l’altra sera nell’incontro in Lussemburgo con il ministro degli Esteri della Federazione russa, Serghei Lavrov. Il punto di partenza è la condivisione, da parte di tutti i Paesi membri dell’Unione, che una soluzione politica della crisi siriana non può che poggiare sull’Action plan, stabilito a Ginevra ed accettato dagli Usa, dalla Russia e dai Paesi europei. Questo piano, è bene ricordarlo, prevede la cessazione delle violenze, l’avvio di un percorso di transizione con la partecipazione di tutte le principali forze politiche della società siriana e l’uscita di scena di Bashar al-Assad, anche se non necessariamente dell’intero regime ma certamente delle personalità più coinvolte in questa orrenda carneficina che va avanti da diciannove mesi. Il punto è che il comportamento di Assad e degli uomini a lui più vicini continua ad accrescere la violenza della guerra civile anche da parte dell’opposizione armata, alla quale si stanno unendo negli ultimi mesi componenti jihadiste, non diffuse ma che si stanno radicando nel territorio. Il cronicizzarsi di questo confronto dà un senso d’impotenza alla Comunità internazionale e allora ci si chiede come Brahimi possa dare nuovo vigore al piano di Ginevra».


E qui rientra in gioco il ruolo della Russia. Quali le novità?


«Nell’incontro in Lussemburgo, Lavrov ha da un lato confermato l’impegno russo al Piano di Ginevra, ma dall’altro ha dato la sensazione di non vedere più l’uscita di scena di Bashar al-Assad come un obiettivo immediatamente perseguibile. Questo è stato letto da molti come un certo arretramento di Mosca dal processo di transizione configurato dal Piano di Ginevra».


Come leggere questo arretramento?


«Si possono azzardare delle ipotesi: può darsi che questo sia determinato dal fatto che l’uscita di scena, almeno nell’immediato, di Assad venga ritenuta a Mosca una condizione impossibile, o alla base possono esserci considerazioni più legate alla visione che la Russia ha dei processi di trasformazione delle “Primavere arabe” e di quel senso di incertezza di fondo che Mosca vede nell’assestamento finale di questi regimi soprattutto per quanto riguarda le condizioni di sicurezza regionale. Resta il fatto che ricercare i termini di un coinvolgimento più costruttivo e determinante della Russia resta un passaggio ineludibile per una soluzione politica alla crisi siriana. Se questo avviene, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu ha concrete possibilità di vedere la luce, e l’ipotesi di una missione di osservatori robusta, quindi dotata di un numero di uomini in grado di far rispettare il cessate il fuoco in ormai numerosi punti di attrito, a cominciare da Aleppo, Homs e Daraa, potrebbe realizzarsi. Nel frattempo, è giusto farsi carico da parte dell’Ue, e l’Italia farà in questo senso la sua parte, dell’emergenza umanitaria, in particolare della condizione dei rifugiati, come richiesto dai Paesi confinanti la Siria, a cominciare dalla Turchia. Così come è importante lavorare, e l’Italia lo sta facendo, per rafforzare e qualificare l’unità delle forze di opposizione ad Assad, condizione per delineare un processo di transizione condiviso internamente e sul piano internazionale».


Nella ricerca di una soluzione politica della crisi siriana, spesso viene evocato l’Iran, lo stesso Paese che l’Ue ha sottoposto a nuove sanzioni.


«La volontà europea, e in essa dell’Italia, è di continuare nella strada dell’approccio del “doppio binario” per portare l’Iran al tavolo del negoziato in modo serio, discutendo concretamente come trovare una soluzione, nella linea del Consiglio di Sicurezza. Il messaggio inviato a Teheran è chiaro: occorre trovare una soluzione in tempi rapidi per porre termine all’arricchimento dell’uranio a livelli compatibili con un armamento nucleare. In questo senso, le sanzioni sono uno strumento doloroso ma necessario. E le ricadute avute sull’economia iraniana testimoniano la loro efficacia. L’Iran potrebbe rappresentare un elemento di stabilità nella Regione, a patto, però, che la nube rappresentata dall’arricchimento dell’uranio e dal programma nucleare venga chiarita in maniera inequivocabile».


Dal Medio Oriente all’Africa. Oggi alla Farnesina sarà ricordato il Ventennale degli Accordi di pace in Mozambico. Il Mozambico può essere considerato un caso di scuola del rapporto tra politica estera e cooperazione allo sviluppo?


«Direi proprio di sì, e con orgoglio. Il Mozambico è davvero un caso di scuola nel dimostrare come i nostri interventi di cooperazione abbiano saputo sostenere la politica estera dell’Italia in una regione cruciale per la stabilità di un intero Continente e per la crescita sociale ed economica del quel Paese. Di recente sono stato in missione a Maputo e ho riscontrato come sia vivissima l’immagine di una Italia che ha giocato questo ruolo determinante. La cooperazione è sempre più componente essenziale della politica estera».

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