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Bonino: «Parte dall’Africa la sfida alla Corte penale internazionale» (l’Unità)

In questi giorni si è rischiato un pericoloso indebolimento dell’attività della Corte penale internazionale a causa dei processi aperti contro i massimi vertici politici del Kenya. I procedimenti avviati dall’Aja a carico del presidente del Kenya, Kenyatta, e del suo vice, Ruto, continuano a costituire un elemento di tensione tra la Corte e numerosi Stati africani. I quali hanno chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite di sospenderli per 12 mesi, in applicazione dell’art.16 dello Statuto di Roma.


Ieri, all’Aja, si è aperta l’Assemblea degli Stati parte della Corte. A catalizzare gli sforzi delle diplomazie presenti è – appunto – la delicata questione dei rapporti tra la Corte e gli Stati africani.


Dobbiamo confrontarci con grande onestà e apertura con queste critiche: quella di parzialità e pregiudizio, frutto della constatazione che il maggior numero di procedimenti della Corte tocchi situazioni avvenute sul continente africano; quella di rappresentare un potenziale fattore di destabilizzazione, quando ad essere perseguiti sono i capi di Stato e di governo – magari anche democraticamente eletti – di Paesi dall’equilibrio istituzionalmente fragile.


Dopo il mancato accoglimento venerdì scorso dell’istanza africana alle Nazioni unite, l’Assemblea degli Stati parte, alla quale interverrò stamattina in qualità di ministro degli Esteri italiano, è un’importante occasione di confronto, nella consapevolezza che i momenti difficili presentano anche grandi opportunità di ulteriore crescita e riaffermazione del valore di questa istituzione. E, in questo senso, l’Italia sosterrà ed incoraggerà con convinzione ogni tentativo di trovare soluzioni che, nel pieno rispetto dei principi dello Statuto di Roma, vengano incontro alle esigenze dei paesi africani.


Oggi, quindici anni dopo l’adozione dello Statuto di Roma, continuo a ritenere che la Corte rappresenti un baluardo fondamentale nella lotta all’indifferenza verso atrocità come il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità.


Non solo. Si tratta di uno strumento di pace, di giustizia per le vittime, di diplomazia preventiva e di promozione di una cultura della legalità e della responsabilità individuale. La sua istituzione e i suoi principi in quanto espressione di una determinazione comune a mettere fine all’impunità dei responsabili di crimini disumani, sono oggi più che mai per la comunità internazionale una storica conquista che non può essere messa in discussione.


Al di là delle tensioni, al centro delle discussioni dei prossimi giorni saranno le tematiche della cooperazione tra Corte penale internazionale e gli Stati parte e, in particolare, il principio di complementarietà tra giurisdizione penale internazionale e giurisdizioni nazionali, e l’impatto dell’attività della Corte sulle vittime e sulle comunità colpite dai più gravi crimini internazionali.


L’attenzione dell’Italia è e rimane focalizzata sulle vittime. Senza giustizia non avranno pace e senza pace non potranno contribuire al processo di riconciliazione nazionale da cui parte la rinascita delle società che hanno subito le più gravi atrocità. Da qui, l’importanza che l’Italia attribuisce alla partecipazione delle vittime nei processi e alla diffusione della conoscenza della Corte presso le comunità colpite.


Il messaggio che intendo dare ai miei colleghi è che senza la collaborazione ed il sostegno politico della comunità internazionale la Corte non può perseguire i propri obiettivi. Ma per far questo, è necessario che tutti gli Stati aderiscano e ratifichino lo Statuto di Roma. Se la soglia di 122 Stati parte – ultimo il Costa d’Avorio che ha ratificato lo scorso febbraio – rappresenta un traguardo di rilievo, non può tuttavia dirsi sufficiente ad assicurare la lotta senza confini all’impunità. Allo stesso tempo, gli Stati parte devono assicurare la propria attiva collaborazione con la Corte, in primo luogo nell’esecuzione dei mandati d’arresto emessi a L’Aja, fatto, questo, che non sempre avviene con tempismo. Non dimentichiamo che anche l’Italia, pur avendo promosso l’istituzione della Corte e ratificandone immediatamente lo Statuto, ha poi impiegato un decennio prima di adeguare il proprio ordinamento interno, mettendola così in condizione di cooperare pienamente. Sta a noi tutti gli Stati parte continuare con convinzione e perseveranza ad assicurare il necessario sostegno politico e finanziario alla Corte.


Senza collaborazione «attiva», senza un impegno comune e la determinazione nel voler far funzionare le Corte, la conquista del primo segmento di giurisdizione penale internazionale, così faticosamente ottenuta, si troverebbe insieme indebolita e svilita.

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