«Dare la vita non è solo essere uccisi… dare la vita è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera… dare la vita poco a poco. Come la da la madre che, senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio».
Sono le parole che monsignor Romero pronunciava in una omelia del 1977, tre anni prima di essere ucciso. A 34 anni dal suo assassinio, questa figura di martire del XX secolo ci interroga, soprattutto se guadiamo al suo Paese -il Salvador- ancora alle prese con le conseguenze della guerra e della violenza contro cui si levò la voce del vescovo.
Dalla cattedra di San Salvador, Romero denunciò le violazioni dei diritti umani, invitò tutti a far tacer le armi, a non ubbidire agli ordini che andavano contro la dignità umana. Parlò sempre a favore delle vittime della violenza politica. Vide morire tanti suoi preti e religiose. La forza delle sue parole era una pietra d’inciampo per le forze politico-militari che si fronteggiavano con la violenza.
Romero ricevette critiche da destra e da sinistra, poiché cercava la via -allora quasi inconcepibile- di una trasformazione pacifica del suo Paese. Cercava la via cristiana, il modello cristiano di una transizione pacifica, come avvenne poi in Cile o in Polonia nei decenni successivi. Ma nel 1980 la sua parola sembrò utopica: la guerra fredda, e la sua trasposizione in America Latina, sembrava non lasciare spazio ad una via terza, non ideologicamente schierata.
Nella sua figura si intravede uno dei drammi del XX secolo: il divorzio tra il mondo religioso e la lotta sociale, tra fede e questione sociale, tra cristianesimo e socialismo, tra spiritualità e solidarietà. Altri cristiani come Romero lottarono contro tale divorzio, come Folleraeu o Schweitzer, Giorgio La Pira, Doroty Day negli Stati Uniti, Helder Camara in Brasile.
Oggi il mondo è cambiato ma il messaggio di Romero ci giunge ancora attuale in un Paese ancora fortemente polarizzato lungo le fratture che alimentarono la guerra civile degli anni 80. Lo dimostra la stentata vittoria di due settimane fa -per appena 6.000 voti!- del candidato del Fronte di Liberazione FarabundoMartì (Flmn), l’ex-guerrigliero rivoluzionario, Sanchez C éren. Si può vincere con poco più della la metà dei consensi ma non è possibile governare senza un accordo con l’altra metà del Paese. I due grandi partiti del Salvador, sorti dalla guerra civile, devono ora puntare su una piattaforma comune per evitare uno stallo politico che sarebbe pericoloso per la piccola nazione centro americana.
I problemi socio-economici del Salvador richiedono la collaborazione di tutti. La questione più urgente è quella della violenza (circa nove omicidi al giorno ed estorsioni diffuse) conseguenza del narcotraffico, senza dimenticare la povertà: un terzo delle famiglie si trova al di sotto della soglia di sopravvivenza. Ripartire dalle parole di monsignor Romero, può essere il modo più solido di costruire una memoria e un progetto di futuro condivisi per il Salvador.