La Libia è tornata al centro dell’agenda intemazionale. Come «fotografa» la situazione in questo Paese?
«È una situazione in lento ma progressivo miglioramento: siamo di fronte alla ricostruzione di un Paese frantumato e ci vuole tempo per riconnettere tutti i pezzi. Siamo partiti, è bene ricordarlo, da una guerra di tutti contro tutti ed ora c’è un governo, un primo ministro che sta cercando di rifare l’unità nazionale».
E l’Italia, che parte ha giocato e intende giocare in futuro?
«Si può parlare di “modello italiano”, che io definirei di influenza e non di ingerenza. Ed è una differenza strategica sostanziale. Abbiamo spinto per l’accordo di Skhirat, quando nessuno ci credeva: abbiamo aiutato il governo guidato da Fayez al-Sarraj a installarsi a Tripoli, quando nessuno ci sperava; abbiamo mandato aiuti umanitari a Nord e Sud per oltre 2 milioni di euro; abbiamo posto in atto un intenso lavoro diplomatico nel Mediterraneo, nel Golfo e in Occidente, perché questi risultati fossero condivisi e sostenuti. Rivendichiamo con orgoglio il “modello italiano” in Libia. Noi abbiamo cercato di sviluppare una politica inclusiva, sia sullo scenario intemo libico sia a livello internazionale. In questa ottica, l’Italia ha fortemente apprezzato il comunicato congiunto con il quale, lo scorso aprile, i rappresentanti dei Tuareg e dei Tebu hanno manifestato il proprio sostegno al govemo Sarraj. E questa considerazione mi porta ad un altro aspetto fondamentale del “modello italiano”: non ci siamo sostituiti ai libici, è loro la totale responsabilità di riuniflcare il Paese. D’altra parte, ingerenze politiche e militari messe in atto negli ultimi quindici anni, sono sempre fallite».
Lei parla di un «modello italiano» fondato sulla politica, sul sostegno umanitario. Tuttavia, in questi giorni sui giornali e in Parlamento si parla della «guerra di Sirte».
«Io non condivido questa enfasi sui raid americani: 9 raid in giorni! Gli americani, leader della Coalizione anti-Daesh, non fanno che ottemperare al mandato ricevuto e su richiesta temporanea del governo Sarraj. Alla luce di questi dati di fatto, tutto questo agitarsi parlando di “guerra” è fuori luogo. Si tratta di una operazione che potremmo chiamare di “polizia intemazionale” su un obiettivo preciso. I problemi della Libia sono altri, mi creda…».
Quali?
«Convincere Tobruk e il generale Haftar a partecipare al Governo, sulla base dell’accordo da loro stessi voluto, e poi ne goziare con Zintan e le tribù del Sud».
Restano le polemiche di questi giorni. Nel corso del question time alla Camera della ministra della Difesa Pinotti, l’esponente del Movimento Cinque Stelle, Manlio Di Stefano, ha consigliato alla ministra el Governo di andare a lezione da chi la Guerra al terrorismo l’ha vinta: il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin.
«Il contrasto al terrorismo ci coinvolge tutti, Russia inclusa, e non dobbiamo dividerci come è avvenuto per troppo tempo in Siria. Ne dobbiamo cadere nella trappola del Daesh che si nutre di proclami di guerra».
La Libia non è solo centrale nel contrasto al terrorismo, ma anche sull’altro fronte caldissimo dei migranti.
«È così. La soluzione della crisi libica è solo politica: se noi vogliamo per davvero una gestione comune del fenomeno migratorio. Allora dobbiamo aiutare a ricostruire lo Stato in Libia. Per far questo ci vuole tempo e pazienza: è una faccenda molto delicata in cui non si possono commettere errori».
Fuori dalle polemiche politiche, la guerra sembra essere tornata di nuovo l’orizzonte evocato anche da filosofi e analisti.
«Dopo le innumerevoli guerre in Medio Oriente, iniziate negli anni ’90, mi si dica quale guerra ha avuto un risultato positivo. La risposta è: nessuna. Oltre i motivi etici, politici, precauzionali, sottolineo un motivo fattuale: le guerre hanno fallito, sono uno strumento obsoleto, dobbiamo pensare a qualcos’altro».
Questo «qualcos’altro» a cuil’Italia ha pensato è anche il «Migration Compact” A Lei che è stato uno degli artefici, chiedo: ma che fine ha fatto il «Compact» italiano?
«Il “Migration Compact” è negoziato tra gli Stati mèmbri dell’Unione Europea e la Commissione. Mi auguro che venga recepito il nostro appello di investire in maniera adeguata nei Paesi africani: è il solo modo, come hanno ribadito più volte Renzi e Gentiloni, per coinvolgerli realmente nella gestione comune dei flussi migratori, oltre che sul tema della sicurezza. È un piano ambizioso che va ben oltre il “Trust Fund” messo a punto nel summit euro-africano a La Valletta. Spero proprio che non sia lasciato a metà. Di certo, come Italia faremmo di tutto perché ciò non accada».