La negazione da parte dell’Unesco del legame tra ebraismo e luoghi sacri di Gerusalemme è assurda, ma si ripete da anni. Ma sono in aumento i Paesi che sono passati dal sì all’astensione. Così il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni in un’intervista al Corriere. E sull’astensione dell’Italia: «Ne ho parlato con Renzi, alla prossima occasione, in aprile, cambieremo il nostro atteggiamento». Sulla Russia: «Le sanzioni non possono essere un paravento per nascondere le difficoltà».
Ministro Gentiloni, è stato un errore astenersi sulla risoluzione dell’Unesco su Gerusalemme?
«La negazione da parte dell’Unesco del legame tra ebraismo e luoghi sacri di Gerusalemme è assurda, ma si ripete da anni. È l’undicesima volta che l’Italia si astiene. La discussione fra le diplomazie è se il modo migliore di contrastare questa assurdità sia di cercare di ridurre l’area di consenso a questa posizione, strada seguita fin qui dall’Italia, ovvero, come fanno Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, se sia meglio testimoniare la propria contrarietà. Ricordo che quest’anno per la prima volta i Paesi astenuti sono più di quelli a favore: 27 a 23, con 6 voti contrari. Rispetto alla precedente votazione una decina di Paesi, fra i quali Francia e Svezia, sono passati dal sì all’astensione. Mi rendo conto che questo calcolo diplomatico non è stato capito e che la scelta di voto abbia ferito la sensibilità di molti. Ne ho parlato con Renzi, alla prossima occasione, in aprile, cambieremo il nostro atteggiamento».
La minaccia di nuove sanzioni alla Russia per la Siria è sparita dal comunicato finale del Consiglio europeo di Bruxelles. Successo dell’Italia o segnale di debolezza?
«Direi successo del buon senso, al quale l’Italia ha dato un contributo decisivo. È singolare che ci sia voluta una battaglia politica dentro il Consiglio, per tornare alla formulazione approvata 4 giorni prima all’unanimità dai ministri degli Esteri. Significa essere ciechi e sordi di fronte al dramma di Aleppo Est? Al contrario. La domanda da porsi è se sanzioni contro Mosca per la Siria porrebbero fine ai bombardamenti. Le sanzioni non possono essere un paravento per nascondere le difficoltà. Oggi tutti condividono la linea, per quanto impervia, di una soluzione diplomatica e di una transizione politica, da sempre sostenuta dall’Italia. Per questo appoggiamo gli sforzi di John Kerry e Staffan de Mistura».
Ma in che modo si fa cambiare atteggiamento alla Russia?
«Dobbiamo spingere Mosca a fare un calcolo attento di costi e benefici. Fino a che punto è sostenibile l’appoggio al regime di Assad e al tentativo di conquistare Aleppo Est radendola al suolo? La Russia deve rendersi conto che in tal modo si guadagna l’ostilità di tutta la comunità sunnita della regione, governi e opinione pubblica. Inoltre vede incrinato proprio il risultato che il Cremlino considera più importante: che sulla crisi siriana ha acquisito un ruolo da protagonista insieme agli Usa. Penso che la riapertura del tavolo di Losanna testimoni della consapevolezza di questo rischio. Nel merito la chiave è nella soluzione al problema di al Nusra, l’organizzazione contigua ad Al Qaeda, che va separata dai combattenti antigovernativi. Su questo punto Mosca ha un argomento, ma deve garantire contemporaneamente la fine dei bombardamenti e del massacro».
Al vertice di Bruxelles non abbiamo ottenuto nulla sulla flessibilità di bilancio.
«Non dobbiamo assecondare rappresentazioni lontane dalla realtà. Al Consiglio europeo non si è discusso dei decimali del rapporto deficit-Pil del nostro bilancio. La trattativa con la Commissione sulla manovra è in corso da tempo e andrà avanti per settimane; sono fiducioso che arriveremo a un risultato positivo. Stiamo attenti però a guardare alla pagliuzza, perdendo di vista la trave, cioè l’immigrazione. È qui che siamo in affanno: se l’Ue non cambia marcia, non potrà gestire la crisi nei prossimi mesi. Occorre rispettare per prima cosa gli impegni e invece è la prima volta in cui quasi si teorizza che decisioni prese possano non essere applicate. Mi riferisco alle ricollocazioni. Da sole non risolvono i flussi migratori, ma sul loro rispetto si gioca la credibilità dell’Europa. Sul resto ci sono passi avanti, ma siamo lenti: abbiamo proposto in gennaio i migration compact, ma abbiamo sbloccato i primi 500 milioni solo la scorsa settimana».
Con la battaglia di Mosul in Iraq si è aperta una nuova fase nella lotta all’Isis. Quali saranno i prossimi passi?
«È un salto di qualità importante. È molto simbolico che sia stata liberata Dabik, città simbolo per Daesh, un autentico rovescio. Ci sono le condizioni perché anche Mosul e poi Raqqa, in Siria, nel giro di pochi mesi lo siano. I nodi sono soprattutto politici: quali saranno le forze protagoniste, chi gestirà il dopo, come garantiremo la convivenza. L’Italia sta svolgendo compiti importanti ed è pronta a farlo anche dopo. Ma il punto è che la liberazione di quei territori segnerà la fine di Daesh che si fa Stato. E penso che quando questo succederà, finirà anche l’appeal, il potere di attrazione che i jihadisti hanno esercitato verso i foreign fighters e i lupi solitari, diminuendo il rischio di attentati».