E adesso? Come si affronta il rapporto con la Turchia che torna a essere uno Stato con forti tratti di autoritarismo e resta allo stesso tempo un Paese che confina sia con l’Unione Europea sia con la Siria in guerra, che ha nella Nato le seconde forze armate per dimensioni ed è per le nostre esportazioni uno sbocco di rilievo? Chi in Italia si occupa di politica internazionale ha presente quanto la questione non si presti a risposte sommarie. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano, in mezz’ora di intervista al Corriere, a un certo punto pronuncia due frasi. Riassumono con efficacia quello che, almeno nelle intenzioni, rimane l’approccio italiano anche dopo il referendum con il quale il presidente Recep Tayyip Erdogan ha posto le basi di un ulteriore rafforzamento dei propri poteri: «Un conto è la collaborazione con la Turchia, la cooperazione di comune interesse per esempio sull’anti-terrorismo e nella Nato. Altro conto è condividerne alcune metodologie». I due piani, a suo avviso, non andrebbero confusi.
Dopo aver vinto di misura il referendum di domenica, Erdogan si è ripromesso di reintrodurre nel suo Paese la pena di morte. Ministro, non lo trova un modo di rinunciare definitivamente al proposito di adesione turca all’Ue, la parte di mondo più vasta nella quale non si eseguono pene capitali?
«L’ingresso della Turchia nell’Unione Europea adesso non è sul tavolo. In ogni caso eventuali decisioni relative alla ipotesi di reintrodurre la pena di morte lo allontanerebbero ancora di più».
Ciò che accade ad Ankara non crea difficoltà alla Nato?
«La presenza nella Nato rafforza sistemi di collaborazione multidimensionali per cui ci sono livelli di collaborazione in ambito di sicurezza militare, di anti-terrorismo, su materie di comune interesse. Ma non significa ingresso nell’Ue o assenza di preoccupazione per quanto dichiarato dall’Osce».
Nell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa si ritiene che durante la campagna referendaria turca «libertà fondamentali essenziali» siano state «limitate» dallo stato di emergenza in vigore. Lei fatica nel dialogare con la Turchia dopo la reazione al tentato golpe del 2016 che ha comportato circa 45 mila arresti e licenziamento o sospensione dal lavoro per 130 mila persone?
«Un conto è la collaborazione con la Turchia, la cooperazione di comune interesse per esempio sull’anti-terrorismo e nella Nato. Altro conto è condividerne alcune metodologie».
Da almeno un paio di decenni il nostro Paese ha un ruolo: promuove relazioni il più distese possibile tra Ankara e Bruxelles. Perfino l’irritazione contro Roma dovuta alla partenza dall’Italia per il Kenya del curdo Abdullah Ochalan, giudicato dalla Turchia terrorista da estradare, fu superata nel 1999 per volontà di settori di centro-sinistra e centro-destra. Per l’Italia questa funzione è finita?
«Siamo convinti che la Turchia, collocata tra Oriente e Occidente, abbia un ruolo fondamentale. Sento inviti a isolare Ankara e Mosca. Non voglio far ricorso a nobili principi e nobili ideali. Semplicemente, non ci conviene. Ci vuole realismo. Ricordo un episodio di quando ero ministro dell’Interno».
Quale episodio?
«Nel gennaio 2015 cominciammo a notare l’arrivo di grandi navi da porti turchi verso la Puglia. Fenomeno strano: i trafficanti le abbandonavano con il pilota automatico in direzione Italia aspettando che fossero soccorse. Sospettavamo che alcune contenessero non soltanto migranti, ma anche possibili terroristi. Incontrai i rappresentanti del governo turco. Dissi che avevamo informazioni sui loro porti. Risolvemmo il problema con il loro aiuto: non partirono più navi con quella rotta e quelle modalità. È un esempio: indica a che serve la collaborazione. Altra cosa è la condivisione di metodi o orientamenti legislativi».
Gabriele Del Grande, il giornalista fermato in una zona della Turchia nella quale non sarebbe consentito accesso a stranieri, risulta in detenzione amministrativa e dovrebbe essere espulso. Perché non viene ancora rimpatriato? E le pare congruo che un Paese alleato adotti misure del genere verso un giornalista?
«Abbiamo attivato tutti i nostri canali, sia in loco sia qui. Abbiamo ricevuto delle rassicurazioni, informato la famiglia e chiesto che tutto si concluda nel più breve tempo possibile».
Erdogan tira molto la corda. Prima con la Russia, spesso con l’Ue. Secondo lei dove vuole arrivare?
«La sua intenzione mi sembra chiara: è il tentativo di una crescente influenza nella dinamica globale. A cominciare da un ruolo significativo nella lotta al terrorismo internazionale. Candidarsi a essere in grado di discutere alla pari con le grandi potenze e volendo rappresentare una prospettiva di tradizione e al tempo stesso di innovazione. Vedo vari segnali secondo cui ciò viene favorito da vicende nelle quali altri non fanno fino in fondo il proprio lavoro, oltre che il proprio dovere».
Erdogan approfitta degli spazi vuoti lasciati dall’Ue e in generale dall’Occidente?
«Purtroppo si».