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Lavorare con la Cina in Africa per ridurre i flussi di profughi” Ambasciatore Ettore Francesco Sequi (La Stampa)

A margine della Conferenza degli Ambasciatori il nostro rappresentante diplomatico a Pechino, Ettore Francesco Sequi, ragiona delle sfide e delle opportunità che Pechino porta a livello globale.

Cominciamo dall’Africa, il terminale delle sfide del Mediterraneo. Che contributo può fornire alla questione dei flussi migratori la Cina, già leader incontrastata in numerosi Paesi africani?

«La presenza della Cina in Africa non è solo conclamata ma cresce, tanto che anno dopo anno i volumi di esportazioni e investimenti cinesi nel continente si avvicinano a quelli di tutti i Paesi Ue messi insieme. Inoltre lo scorso anno durante il vertice Focac (Forum on China-Africa Cooperation) in Cina si è deciso un investimento di Pechino di 60 miliardi di dollari nello sviluppo del continente. È una buona notizia nella misura in cui questo si traduca in benessere ma bisogna fare in modo che sia sostenibile finanziariamente, economicamente e sul piano ambientale. E dunque sì, potenzialmente la stabilizzazione dell’Africa può avere effetti positivi sulla crescita locale e sulla riduzione delle motivazioni dei giovani migranti, a patto che rispetti la sostenibilità. La cooperazione nel rispetto di questi criteri può potenzialmente ridurre flussi migratori».

Come interloquiscono in Africa Italia e Cina?

«I cinesi cercano lo sviluppo di collaborazioni in Paesi terzi che prevedano accordi tra imprese cinesi e magari europee in un Paese africano. Alcuni Stati europei hanno già siglato dei “memorandum of understanding” finalizzati a questa triangolazione. Nell’ambito di questi Mou i francesi per esempio hanno già avviato 6 progetti mentre l’Italia non ha ancora dei progetti, ma so che gli africani vedrebbero molto positivamente un nostro accresciuto impegno nelle infrastrutture, anche nelle forme di cooperazioni triangolari».

Come s’inquadra in questo processo il memorandum of understanding tra Roma e Pechino, firmato sotto lo sguardo non privo di sospetti di altri Paesi europei?

«Partiamo dal fatto che dai 14 ai 17 Paesi europei – il numero varia secondo le stime – hanno concordato con la Cina memorandum analoghi. Ma quello italiano ha una peculiarità: traccia il perimetro molto preciso che definisce le regole d’ingaggio in caso di future collaborazioni, regole che rispondono al meglio ai principi europei e che prevedono, ad esempio sostenibilità finanziaria, ambientale, fiscale di eventuali progetti, gare aperte e trasparenti e parità di condizioni tra imprese italiane e cinesi. È un memorandum molto avanzato da questo punto di vista, l’unico in cui tra l’altro è stato inserito il riferimento chiaro e solido ai principi contenuti nella strategia di connettività euro-asiatica dell’Ue. Anche per questo motivo a Bruxelles il documento italiano è definito “memorandum 2.0”. Mi hanno riferito i nostri imprenditori in Cina che dal giorno della firma hanno notato un cambiamento in positivo nei nostri confronti ma soprattutto diversi Ambasciatori europei a Pechino ci hanno riservato complimenti pubblici per aver fissato l’asticella dei principi talmente in alto da costituire un precedente positivo per i prossimi Paesi che saranno coinvolti in negoziati o che già stanno negoziando».

La Ue può rappresentare veramente l’ago della bilancia nelle crescenti tensioni tra Pechino e Washington?

«Per la Cina l’Unione Europea è un partner importantissimo ma è evidente che serve un approccio europeo coeso ai rapporti con Pechino. L’Ue se ne deve convincere. Certamente i problemi con gli Stati Uniti fanno sì che la Cina guardi l’Europa come un interlocutore essenziale e che rappresenta inoltre un mercato da 500 milioni di consumatori, il primo per la Cina mentre la Cina è il secondo per l’Ue. Ci sono temi dirimenti come i dazi e la riduzione del disavanzo commerciale, è ovvio, ma anche per questo serve una politica europea compatta».

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