Questo sito utilizza cookie tecnici, analytics e di terze parti.
Proseguendo nella navigazione accetti l'utilizzo dei cookie.

Preferenze cookies

Del Re: Il nuovo Mali al centro dei nostri interessi (Limesonline)

Assimi Goïta, Asso per gli amici, è il nuovo uomo forte del Mali. E dire che era quasi sconosciuto.

Trentasette anni, padre di tre figli, è considerato persona integra. Cresciuto nel mondo militare – figlio di un ufficiale dell’esercito – ha frequentato scuole militari fin dall’adolescenza, in particolare la famosa Prytanée Militaire di Kati, creata sul modello napoleonico francese in Mali nel 1923, poi riportata in auge dal generale dittatore Moussa Traorè nel 1981.

Specializzato in mezzi corazzati e cavalleria, dal 2002 Goïta è stato assegnato al Nord del Mali, nelle zone di Kidal, Tessalit, Timbuktu, Gao, a combattere i terroristi che arrivano dal deserto. Dopo l’attentato del 2015 all’Hotel Radisson di Bamako, ha coordinato le operazioni speciali. Dal 2018 è a capo delle Forze Speciali maliane, nonché delle operazioni nel nord e nel centro del paese, compreso il Darfur sul fronte esterno. Pluridecorato, si è formato in Francia, Germania, negli Usa, in Gabon.
 
Come condurrà il paese ora che il 24 agosto il Cnsp (Comité National pour le Salut du Peuple), la giunta militare, lo ha proclamato Capo di Stato con un atto ufficiale pubblicato il 27 agosto? Saprà guidare la transizione secondo principi d’inclusività nel quadro di un processo democratico, come chiede la comunità internazionale e come la nuova giunta al potere sembrerebbe incline ad accettare? L’atto ufficiale, definito “fondamentale”, individua le linee guida che i militari intendono seguire per mettere in atto il processo di transizione.
 
Non sono mancate le reazioni, soprattutto da parte dell’Ecowas, il cui presidente Issoufou ha chiesto al Cnsp di attivare senza indugio una transizione civile consultando la Corte Costituzionale, i partiti politici e la società civile, nonché tutti gli attori coinvolti.

La svolta in Mali non è da ritenersi inaspettata: le proteste si protraevano da mesi. Acuito dal forte impatto della pandemia di Covid-19 sulla situazione economico sociale, il malcontento popolare ha trovato il suo catalizzatore nell’elevato tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, aumentato del 7% da quando il presidente Keïta era assurto al potere nel 2013.

Malcontento che in questi ultimi anni è cresciuto tanto esponenzialmente quanto la diffusa percezione che il paese sia devastato da una corruzione endemica concentrata nel settore pubblico. A ciò si è aggiunta la mancanza di un’efficace risposta alla crescente insurrezione jihadista, che ha reso ingovernabili vaste aree del Mali e costretto al rinvio delle elezioni legislative previste per l’ottobre 2018.
 
Non si tratta solo di un problema di sicurezza, si tratta di un intero “sistema jihadista” che ha minato l’economia delle comunità alla radice. Sono stati abili i gruppi jihadisti a sfruttare le già profonde spaccature tra le comunità pastorali e agricole che si trovano a competere per accedere alle scarse risorse dell’area in un contesto climatico ostile, proponendo ai membri delle comunità di unirsi a loro in cambio di sostegno a più livelli.
 
I governi centrali di Mali, del Burkina Faso e della Nigeria non riescono a controllare quei territori, con la conseguenza che i gruppi jihadisti si sostituiscono a loro, fornendo quell’assistenza che le istituzioni non riescono a dare. I giovani diventano particolarmente vulnerabili alle lusinghe jihadiste che fanno leva sul disagio e sulla mancanza di prospettive, rinfocolando rancori su base etnica e alimentando il radicalismo religioso in comunità musulmane pacifiche per nulla estremiste.

Sebbene lo Stato Islamico (Is) non controlli nemmeno l’1% del territorio africano, tutti i paesi africani temono la sua espansione, il reclutamento e gli attacchi. Il disinteresse generale per il ruolo e la presenza di al-Qa’ida e dello Stato Islamico nel continente africano non solo è miope ma è potenzialmente dannoso per tutti i paesi del Mediterraneo e dell’Europa indirettamente. La strategia di contrasto per ora si è basata sullo schieramento nelle zone di confine in Mali, Chad, Burkina Faso, Mauritania e Niger di una forza regionale, FC-G5 Sahel, di circa mila unità, che per tutto il 2019 e all’inizio del 2020 ha subito dolorose perdite causate dalle attività delle organizzazioni terroristiche regionali.

In Mali c’è anche la missione Minusma delle Nazioni Unite, che ha lo scopo di sostenere il processo politico nel paese e attuare una serie di azioni di sicurezza, per la stabilità e la protezione dei civili. A queste si aggiungono le missioni Eutm e Eucap dell’Unione Europea incentrate sulla formazione delle forze armate e di polizia. C’è anche Barkhane sotto comando francese, che ha lo scopo di costituire il pilastro di contrasto al terrorismo nel Sahel con operazioni cinetiche. Conta circa 5.100 effettivi.
 
Il 40% della popolazione maliana, secondo i dati della Banca Mondiale, vive al di sotto della soglia di povertà. Un quadro sconsolante cui Keïta, secondo i suoi critici, non ha saputo dare una risposta concreta. Avrebbe usato inizialmente la sua popolarità per ottenere il consenso del popolo e delle istituzioni per far accettare i difficili compromessi necessari per raggiungere un accordo di pace efficace con i separatisti Tuareg nel nord. Un approccio che però si è rivelato dilatorio e ha lasciato un vuoto in cui il terrorismo jihadista ha potuto prosperare, arrivando a destabilizzare vaste aree del Mali settentrionale e centrale, diventato l’epicentro dei movimenti estremisti attivi nel Sahel.
 
Cosa ha fatto esplodere la miccia che ha portato all’ammutinamento al campo militare di Kati, il più grande del paese, a 15 chilometri da Bamako? Forse i cronici ritardi nei pagamenti dei soldati, ma anche – sembra – alcune recentissime decisioni prese dall’alto, come l’improvvisa destituzione, ordinata da Keïta, del capo della guardia presidenziale e di un comandante di Kati. L’atteggiamento della popolazione intanto si andava inasprendo nei confronti del governo, anche perché le forze di sicurezza avevano sparato sulla folla dei manifestanti nelle settimane precedenti (fonti: CNN, Annesty International, Human Rights Watch).
 
Un altro attore è fondamentale in questa vicenda: il Mouvement du 5-juin – Rassemblement des Forces patriotiques (M5-RFP), formato da una larga coalizione di partiti politici d’opposizione, leaders religiosi e organizzazioni della società civile. Ad esso si è unito l’influente imam Mahmoud Dicko, che nel settembre 2019 aveva creato un suo movimento chiamato Cmas (Coordination des mouvements, associations et sympathisants) con il quale ha organizzato grandi manifestazioni prima dell’estate 2020, che chiedevano a Keïta di dimettersi.
 
Il ruolo dell’imam Dicko nel dopo-golpe non è ancora chiarissimo, anche perché egli ha annunciato il suo abbandono della politica proprio il 19 agosto di quest’anno. Si è però pronunciato in questi giorni chiedendo ai militari di mantenere la promessa di cambiamento democratico e affermando che non intende dare loro carta bianca in questo processo. Ha affermato anche che la coalizione intende accompagnare il processo di transizione. Chiede che la coalizione prenda parte al processo decisionale per creare il “nuovo Mali”.
 
Una situazione composita, in cui tutte le componenti della società dovranno svolgere un ruolo attivo. Il problema è quale ruolo potranno avere la società civile e i movimenti politici, i quali in larga parte hanno salutato con favore il colpo di Stato. I militari hanno affermato di voler restituire il potere al popolo. Un equilibrio di potere andrà ricercato con attenzione, perché il M5-RFP può avere una forte influenza sulla Giunta, al potere dal 18 agosto, che però deve dimostrare la sua solidità e coerenza con i propositi annunciati.
 
Ora sta al Mali fare la sua storia. Il Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo ha elencato una serie di obiettivi che – perlomeno a parole – sembrano voler puntare sull’inclusività. Il vicecapo di stato maggiore dell’aeronautica militare, Col-Major Ismaël Wagué (portavoce del Comitato), ha dichiarato che la società civile e i movimenti politici sono invitati a unirsi a loro per creare insieme le migliori condizioni per una transizione che porti a elezioni credibili per l’esercizio della democrazia attraverso una tabella di marcia che getterà le basi per un nuovo Mali. La Giunta afferma che le questioni come la formazione di un governo saranno prese in accordo con i partiti, i sindacati e la società civile. Vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Un aspetto fondamentale è costituito dai tempi, perché bisogna decidere la durata della transizione. Il timore è che se si prolungano troppo i tempi, i principi a cui la Giunta dichiara di essersi ispirata restino un’utopia e le risposte alle istanze della popolazione restino lettera morta.

Cosa deve fare il mondo di fronte a questo scenario? Intanto fare in modo che la fantapolitica non avveleni questo processo delicato di un paese che merita tutta la nostra attenzione vista la sua importanza strategica.

L’auspicio di tutta Europa, Italia per prima, è una transizione realmente democratica e inclusiva, nell’ambito di un quadro costituzionale credibile e soprattutto istituito in tempi brevi. Un vuoto di potere prolungato, così come un ciclo d’instabilità, può ulteriormente deteriorare la situazione nel paese. Un’instabilità che potrebbe avere ricadute anche sulle politiche di stabilizzazione sia degli Stati Uniti sia della Francia e contagiare gli altri paesi del Sahel e dell’Africa occidentale. Il presidente Macron deve si trova a far fronte alla complessa situazione in un paese che costituisce un prezioso alleato proprio per il contrasto al terrorismo, e per questo intrattiene un dialogo specifico e dinamico con i partner europei, tra cui l’Italia, che hanno deciso di partecipare alla task force Takuba contro il terrorismo in Mali, Niger e Burkina Faso.
 
Ovviamente la stabilità e lo sradicamento della minaccia terroristica nel Sahel sono fondamentali non solo per i governi locali, ma per l’intera Unione Europea, perché l’instabilità regionale genera terrorismo e migrazione illegale. In questa ottica, il contributo italiano tramite la Task Force Takuba andrà ad inserirsi nel contesto di stabilizzazione del Sahel, nell’ambito della missione francese Barkhane e della Forza Congiunta del G5 Sahel. La missione Task Force Takuba è stata approvata dal parlamento pur non essendo ancora schierata sul terreno. Il giusto principio che ha portato alla scelta di aderire è dettato dalla sempre maggiore consapevolezza che il Sahel è un’area fondamentale per contrastare tutti i traffici illeciti inclusi quelli di esseri umani, per contrastare l’avanzata e l’incidenza dei gruppi jihadisti, per rafforzare la fascia a sud della Libia. Il Mali non ha petrolio, è poverissimo, non ha sbocchi sul mare, ma è molto grande e i suoi sette vicini hanno confini permeabili che lasciano passare di tutto.

In questo quadro il Mali è particolarmente rilevante per varie ragioni. Il suo destino è segnato dalla sua posizione geografica, centro di uno dei canali di traffici illeciti più redditizi dall’Africa all’Europa; persino i narcotrafficanti sudamericani a un certo punto usavano il deserto del Mali per depositarvi cocaina da trasportare poi in Europa. Si tratta di zone talmente difficili e ostili che chi conosce il territorio è un vero professionista molto richiesto. La mancanza di stabilità politica e la corruzione diventano humus ideale per i gruppi estremisti e criminali. Il 3 giugno 2020 l’Operazione Barkhane ha annunciato l’uccisione del capo di Aqim Abdelmalek Droukdel e di numerosi suoi accoliti durante un’operazione nel nord del Mali vicino al confine con l’Algeria, ma a questo sono seguiti attacchi per vendetta sulle forze maliane. Bisogna interrompere questo aumento di influenza e potere, per evitare che il Sahel diventi la naturale e più affidabile alternativa al centro dell’estremismo in altre aree.

Circa l’Italia, la questione è esserci o non esserci, come d’altra parte in Libia. Abbiamo intenzione di aumentare la nostra presenza in Mali, con l’apertura di un’ambasciata, che seguirà l’apertura della nostra sede diplomatica in Niger tre anni fa e in Burkina Faso un anno fa. Abbiamo firmato in luglio la Programmazione congiunta europea in Mali per il periodo 2020-2024, per una cooperazione più coerente e strategica nel paese tra i paesi membri dell’Ue. La cooperazione bilaterale opera attraverso ONG italiane e tramite organizzazioni internazionali. Umanitario e sviluppo convergono spesso nelle azioni in Mali, per cui è necessaria la collaborazione tra le istituzioni locali e i donatori. Vi sono diverse piattaforme europee di intervento tra cui Global Alliance for Resilience Initiative (Agir), Alliance pour le Sahel, e la Strategia Unificata delle Nazioni Unite. I nostri programmi sono incentrati su settore idrico, agricolo e sociale, e sulla promozione dell’impiego giovanile attraverso la valorizzazione del settore agricolo.
 
Tirando le somme di questo viaggio nel Mali delle ultime ore, emerge che non possiamo puntare solo sulle soluzioni militari. Sembra un’affermazione lapalissiana, ma non lo è, perché proprio dai recenti avvenimenti appare chiaro che non basta puntare sulla sicurezza per ottenere stabilità e prosperità, anche se la stabilità e l’eliminazione di traffici illeciti e terrorismo restano fondamentali. Il problema sta nell’opzione che vogliamo offrire al paese in alternativa a quella dei gruppi jihaidisti, che scaltramente entrano nelle maglie della società maliana invadendole tutte, dall’aspetto religioso a quello dell’impiego, dalla natura delle attività economiche ai ruoli interni alle comunità. Ribaltando la strategia e applicandola con i nostri valori democratici, dovremmo agire con un piano europeo che agisca su tutti i settori della società contemporaneamente, con un consistente impegno economico e di risorse umane. Serve un modello di gestione di questo tipo di crisi in linea, ove le condizioni sul terreno lo consentano, con un approccio onnicomprensivo, fatto di interlocuzione con attori locali, Cimic, cooperazione, formazione delle forze di sicurezza e riforma del settore della sicurezza (Ssr).
 
Non si può negare che l’Italia non vanti eccellenze in questo settore.
 
Negli ultimi anni il Mali è passato dall’essere un paese esempio di stabilità in Africa con una stampa vivace, con una donna primo ministro (Cissé Mariam Kaïdama Sidibé, nel 2011) a paese vessato da povertà, corruzione e terrorismo. Il coinvolgimento inclusivo, se tale veramente resterà, proposto dalla Giunta in questi giorni potrebbe far leva sulle doti di moderazione e apertura proverbialmente attribuite ai maliani. Timbuktu è patrimonio dell’Unesco, con le sue famose biblioteche. Le devastazioni perpetrate da estremisti di Ansar Dine tra il 2012 e il 2013 – quando furono respinti dalle forze francesi – hanno causato la distruzione di moschee e mausolei, nonché di decine di migliaia di manoscritti. L’Unesco ha ricostruito il mausoleo e altri siti nel 2015, ma la ferita e il rischio restano.
 
Quella che si gioca in Mali è anche una battaglia culturale e religiosa. Dovremmo sostenere al massimo le forze tolleranti maliane. L’Islam maliano è moderato, fortemente influenzato dal sufismo. Su questo davvero potremmo contare.
 
Torniamo da dove siamo partiti, cioè da Assimi Goïta. La storia personale del nuovo uomo forte maliano potrebbe influire sulle sue scelte. Immagino la sua vita non sia stata facile, stando alle fonti sulla sua biografia. Si potrebbe prospettare per lui oggi, auspicabilmente, un’occasione per trasformare tale esperienza in un’azione politica che porti a un modello democratico inclusivo nel rispetto dei diritti umani. Non possiamo sapere cosa accadrà e quali saranno i protagonisti del Mali. Ma siamo nell’era della comunicazione globale. Il contesto globale segue il Mali e le sue vicende. Starà al nuovo assetto di potere di oggi o domani saper dare risposte al profondo senso di disagio spirituale e materiale di una popolazione vessata da tanti problemi. I problemi del paese dettano l’agenda: si devono creare posti di lavoro, sconfiggere la corruzione, rafforzare le istituzioni locali, in un quadro di inclusività e di equità.
 
Non possiamo sapere ora se questo si realizzerà, ma dobbiamo restare vigili, proporre una transizione rapida verso un nuovo governo democratico che ci permetta di avere un interlocutore istituzionale per continuare a fornire aiuti allo sviluppo, a intrattenere i rapporti bilaterali, a rafforzare la collaborazione sul piano politico, sociale, economico, e in ambito di sicurezza. È un’occasione per l’Europa, che in questo attuale contesto può ritagliarsi un ruolo efficace e convogliare interessi e risorse su un’area fondamentale per tutti.
 
Ai maliani dedico questa riflessione di Rumi: “Ieri ero intelligente, volevo cambiare il mondo. Oggi sono saggio, e per questo cambio me stesso”.