I fatti di Capitol Hill confermano la necessità di una riconciliazione nazionale. Per gli Stati Uniti è un passo difficile, ma i presupposti ci sono. L’Europa può fare d’avanguardia. La dolorosa esperienza del Sudafrica come modello.
Siamo e resteremo sempre alleati storici degli Usa, principale democrazia del mondo.
Siamo stati e siamo sempre parte fortemente attiva, anche attraverso la presenza dell’industriosa comunità italoamericana, dello sviluppo del paese. Impossibile non essere attratti e ipnotizzati dalla cultura statunitense, che si diffonde nel pianeta attraverso i film, le serie televisive, la musica, lo sport. Ci siamo “americanizzati” consapevolmente nel tempo, affascinati da un paese apparentemente sicuro di sé, con risposte pronte e sempre molto nette di fronte a tutte le problematiche.
Una certezza che si riflette nella terminologia politica e nel linguaggio comune, che vede il termine “grande” declinato in tutti gli aspetti della vita quotidiana americana, dai supermercati con le confezioni giganti all’Esercito, definito “il più potente” del mondo. Quando i politici ricorrono al termine “great”, l’argomentazione diventa convincente per molti americani. Non a caso Trump ha usato come primo slogan “Make America Great Again”, un capolavoro politico.
Per lungo tempo ho tenuto presso La Sapienza un corso su stereotipi e discorso politico americani, intendendo per americani gli Stati Uniti, un aggettivo che nel tempo è diventato sinonimo più degli Usa che non del continente nel suo complesso. Un corso molto frequentato anche perché utilizzavo l’analisi dei film e delle serie televisive per spiegare la società americana: da “Do the right thing” di Spike Lee a “Falling down” di Joel Shumacher a “Minority Report” di Spielberg, ma anche la serie che in italiano si intitola “Willy il principe di Bel Air” e molti altri esempi più recenti.
Emergeva via via il ritratto di una società estremamente complessa, tanto complessa da riuscire a trovare magicamente un equilibrio. Un equilibrio sostenuto soprattutto dalla grande capacità moralizzatrice di tutta questa comunicazione popolare in cui ogni film, ogni puntata di serie televisiva, si conclude con un insegnamento morale, un’indicazione comportamentale che penetra subliminalmente, lasciando forte traccia spesso negli ambienti più insospettabili. Nel contesto americano i punti fermi della morale collettiva del paese sono messi ben in chiaro proprio come patrimonio comune, fin da quando i bambini imparano a memoria a scuola il discorso che Abramo Lincoln fece a Gettysburg nel 1863 (ricordate le strisce di Charlie Brown?).
Quando presentavo “Jurassic Park” di Spielberg agli studenti come esempio di questo grande intento moralizzatore, essi restavano stupiti, all’inizio, chiedendosi cosa mai potesse esserci di moraleggiante nei dinosauri. Eppure, il film è l’esempio secondo me più emblematico del meccanismo di passaggio subliminale di valori condivisi (leggi: da accettare) nascosti nel modo in cui il regista distribuisce i ruoli tra gli umani – donne, uomini, buoni, cattivi, bianchi, neri eccetera – di fronte all’immancabile nemico, in questo caso il T-Rex e affini.
Non è una decisione facile da prendere, perché fare un simile passo per un paese come gli Stati Uniti vorrebbe dire ammettere che le istituzioni, di qualunque colore politico, non sono riuscite a risolvere spaccature interne alla società con i normali strumenti a disposizione, che per capire quali sono gli errori, di chi sono le responsabilità, bisognerebbe istituire un nuovo organo preposto. Questo significherebbe entrare nelle maglie della società, nei suoi meandri più profondi, nelle dialettiche di quartiere, nelle province più remote, nei “ghetti” e allo stesso tempo nelle dinamiche delle élite. Ammettere che “black lives matter” non è una reazione all’uccisione di George Floyd nel 2020, ma rappresenta un aspetto irrisolto di una questione sociale molto seria, anche perché il Movimento era già attivo nel 2013, nato a causa di morti simili a quella di George. Non a caso c’è chi sostiene che sarebbero necessarie molte commissioni, perché le realtà sociali sono diversificate e meritano risposte ad hoc.
Istituire una Truth and Reconciliation Commission non sarebbe una decisione agevole, anche perché secondo alcuni potrebbe mettere in discussione il ruolo stesso degli Usa nel mondo. Non sarebbe semplice mostrare tutte le debolezze interne apertamente, ammettere che queste sono strutturali, soprattutto nella coesione sociale. Non sarebbe facile per gli Usa, e non lo sarebbe per nessun paese.
Conosco bene il caso della Truth and Reconciliation Commission del Sudafrica, che peraltro viene richiamata da tutti coloro che vorrebbero un’esperienza simile negli Stati Uniti. La Commissione fu creata all’indomani della fine dell’Apartheid. Chiunque ritenesse di essere stato vittima di violenza o abusi poteva rivolgersi a essa per essere ascoltato. I perpetratori potevano essi stessi testimoniare chiedendo di essere amnistiati. La Commissione fu creata con la legge Promotion of National Unity and Reconciliation (Act 34 del 1995). Per comprenderne l’impronta basta ricordare che il presidente della Commissione era Desmond Tutu.
Fu un processo molto doloroso, con audizioni trasmesse in televisione. Un processo funzionale alla transizione che il paese stava affrontando, che viene oggi in genere ritenuto positivo. Io che avevo seguito come osservatrice elettorale per l’Ue nel 1994 in Sudafrica le prime elezioni multietniche – e vi ero stata più volte, soprattutto nelle townships – conosco bene cosa volesse dire la parola riconciliazione in quel paese dilaniato da mille ingiustizie e ho fortemente creduto nel significato della Commissione in quel momento storico. Peraltro, il Sudafrica non è il solo esempio, perché di commissioni analoghe ne sono state create molte nel mondo: dalla Tunisia al Cile, al Gambia, al Perù, alla Liberia.
Il Canada istituì nel 2008 una commissione per investigare sugli abusi contro gli alunni nativi indiani-americani negli studentati del paese, forzati all’assimilazione e altro. Nel 2004 gli stessi Stati Uniti hanno istituito a livello locale la Greensboro Truth and Reconciliation Commission, rimasta in carica fino al 2006 allo scopo di investigare sul cosiddetto massacro di Greensboro del 1979, e la Maine Wabanaki-State Truth and Reconciliation Commission, per investigare le problematiche connesse alle condizioni dei bambini presso le popolazioni native indiane-americane Wabanaki.
Il grado di efficacia delle commissioni in Africa e in America Latina – istituite all’indomani della caduta di regimi, in fase di transizione dopo guerre civili o altro – varia. Il caso del Sudafrica oggi rappresenta lo standard ed è per questo che viene continuamente richiamato nella discussione negli Usa, sebbene sappiamo che quella Commissione fu istituita dopo una svolta epocale nel paese, che aveva visto sconfitto un sistema basato sull’ingiustizia, che vedeva tutte le istituzioni coinvolte e una legislatura che legittimava tale sistema.
Sono tanti gli americani che invocano oggi una Commissione per la verità e la riconciliazione negli Usa. Troppi gli episodi accumulati, dicono, che non sono stati adeguatamente affrontati e quindi hanno lasciato un malessere sociale dietro di sé. Non si tratta solo di Trump, di elezioni. Si tratta, dicono molti, di un complesso di accadimenti – rappresentativi di divisioni nella società – che devono essere analizzati e discussi, in cui il dialogo tra le parti sociali deve essere protagonista, con l’ascolto, il coraggio di esporre i fatti e poi maturare una consapevolezza e una decisione. Si tratterebbe insomma di un processo riparativo, come quello portato avanti da anni nell’Irlanda del Nord. Emerge che la questione sta nello scopo e nella metodologia della commissione: lo scopo sarebbe quello di intraprendere un percorso di cura sociale e la metodologia dovrebbe essere mirata a far sviluppare un vero incontro tra le parti per risolvere alcune questioni strutturali alla radice.
In rete vi sono moltissime riflessioni di statunitensi su come affrontare le ineguaglianze, come rispondere alle istanze di chi si sente vittima. Non basta il National Museum of African American History and Culture di Washington a ridare alla popolazione nera americana la dignità culturale che merita. Restituire alle minoranze – tra queste anche i 500 mila senzatetto per esempio – un ruolo sociale che crei attorno a loro uno scudo di protezione e riconoscimento, in un contesto criticato per non avere un sistema di sanità pubblica e in cui la qualità delle scuole dipende da quanto chi le frequenta è in grado di pagare. Tra queste minoranze, vi sono anche i suprematisti bianchi, gli estremisti neonazisti, i QAnon. Se non si conoscono le loro istanze, i loro linguaggi, le loro forme di comunicazione e soprattutto gli stili di vita, non si possono contrastare le loro politiche razziste, complottiste, distruttive.
Gli eventi terribili e pericolosissimi di Capitol Hill mi fanno riflettere sul futuro degli Usa. Non verrà mai meno la mia fiducia nel popolo americano inteso come grande agglomerato collettivo riunito attorno a valori come quelli della Dichiarazione d’indipendenza del 1776 che include la “ricerca della felicità” come diritto inalienabile, e sono certa che gli Stati Uniti troveranno un nuovo equilibrio. Il problema ora è riallineare il baricentro alla luce dei movimenti tellurici avvenuti negli ultimi anni. Non possiamo ignorare l’insegnamento di Foucault, ovvero che il mondo gira.
Ma il futuro degli Usa è anche il nostro. Il caso americano presenta specificità, ma riflette una crisi più generale dell’Occidente, in cui è emerso negli ultimi anni uno stato di sofferenza della politica. Sempre più gli establishment politici delle liberaldemocrazie vengono messi di fronte a sfide complesse della contemporaneità, che consistono soprattutto nella capacità di trovare risposte alle istanze di tutti – non solo sul piano nazionale. Consapevoli che tali scelte incidono sempre più nella vita quotidiana di ciascuno di noi.
Alla prova del Covid-19 le leadership occidentali si sono dovute organizzare per affrontare l’emergenza e rafforzare la resilienza delle proprie società e dei propri apparati industriali per far fronte alle ricadute economico-sociali della pandemia. Sono proprio le liberaldemocrazie che hanno dovuto affrontare le sfide più complesse, dovendo varare misure restrittive e allo stesso tempo rispettare libertà fondamentali come ad esempio la privacy.
I fatti accaduti a Washington quale America ci mostrano? Seguo da tempo un percorso di riflessione intrastatunitense molto importante di cui poco si parla. A me che da sempre mi occupo di risoluzione di conflitti (auspicando più prevenzione però), non è sfuggito il dibattito in corso da anni per cui da più parti (Usa Today, Foreign Policy, The Conversation, Washington Post e diversi altri, incluso il Carnegie Council for Ethics in International Affairs già nel 2015) giungono richieste di istituire una Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation) nel paese. Una richiesta che ha avuto nuovo impulso soprattutto negli ultimi mesi a seguito dell’inizio della campagna di Trump contro i risultati delle elezioni che hanno visto Biden vincitore, peraltro appena proclamato dal Congresso.
Capitol Hill è un avvertimento: bisogna gestire la spinta suprematista, nazionalista, estremista, anche religiosa, che ormai mette in discussione lo stato di diritto senza ricorrere a facili giaculatorie ma trovando formule e linguaggi contemporanei per affermare un nuovo approccio liberaldemocratico alla politica, che sia vicino ai bisogni della gente in un mondo che sta attraversando cambiamenti epocali.
Per questo è fondamentale rivolgere massima attenzione alle periferie geografiche e mentali dell’Occidente, quelle che hanno votato e continueranno a votare Trump o suoi emuli se non riusciranno a percepire i dividendi della società globale.
Serve un processo profondo di incontro, condivisione, normative adattate alla contemporaneità. E soprattutto superare quella che la grande Anna Freud definisce Verneinung (negazione), ovvero un meccanismo di difesa che comporta il rifiuto di accettare la realtà, in questo modo impedendo che si inneschi il necessario percorso di consapevolezza e accettazione.
Poiché siamo tutti americani, e siamo tutti gli americani, ritengo che quando “il” nostro partner è in sofferenza soffriamo anche noi e che in questa fase l’Europa possa agire da avanguardia, perché lo European way of life – l’irripetibile e straordinaria combinazione di civiltà del diritto, inclusione sociale, welfare e protezione dell’ambiente – rappresenta una base ottima per il rilancio delle liberaldemocrazie, come modello non solo da difendere ma da rilanciare, che ha ancora molto da proporre per sé e per il mondo.
Spazio per la riconciliazione c’è, con o senza commissioni ad hoc. Se da mesi lo slogan più duro e significativo è “I can’t breathe”, vero monito per la società americana, dopo Capitol Hill bisognerebbe portare quelle fasce estremiste della società americana a pronunciarne uno nuovo: “Make America breathe again”.
Link articolo originale – Limes