Roma – Da Bruxelles, dove accompagna il capo dello Stato Sergio Mattarella nella due-giorni di incontri con i vertici delle istituzioni europee, Antonio Tajani fa il punto della situazione sul conflitto in Ucraina:« È una fase di incertezza – conferma il vicepremier e ministro degli Esteri italiano – si inizia a parlare di trattative ma il percorso è ancora lungo. Dico solo una cosa: la Russia ha un milione di uomini armati che prendono il doppio dello stipendio degli operai e un’economia orientata alla guerra. Se finisce la guerra cosa faranno questi soldati? Come si tornerà in Russia a una economia di pace? Ma poi: i fronti di tensione si moltiplicano e si intrecciano: Medio Oriente, India, Libia, i rapporti Iran-Usa… È sempre più evidente che serve un chiarimento complessivo, globale. Ho sempre detto che chi affermava di poter costruire la pace in un giorno si sbagliava. Noi abbiamo le idee chiare sul percorso da seguire ma vanno messi in conto incomprensioni e irrigidimenti. Dobbiamo essere sempre realisti».
Quali sono le “idee chiare” dell’Italia?
«Noi chiediamo che si inizi innanzitutto un cessate il fuoco tra Ucraina e Russia, poi la tregua e dunque la pace anche garantendo una zona “cuscinetto” sotto l’egida dell’Onu, che certamente avrebbe anche il contributo dell’Italia. Al contempo bisogna garantire la sicurezza dell’Europa, dall’Ucraina al Portogallo, attraverso un’azione congiunta con gli Stati Uniti. Noi dobbiamo fare di più per la nostra difesa: significa che l’Europa dovrà fare di più per la sua stessa sicurezza, ma non significa banalmente comprare più cannoni e carrarmati. Avendo chiaro, lo ripeto, che la nostra sicurezza richiede sempre e comunque un’azione sinergica con gli Usa».
Gli ultimi giorni hanno visto un riequilibrio tra Europa e Usa?
«Non ci può essere squilibrio o distanza tra Usa ed Europa. È un rapporto naturale. All’inizio dell’era Trump c’è stata preoccupazione ma ho sempre sostenuto che reazioni a caldo erano inutili e dannose. Ora abbiamo un flusso di relazioni costanti, di cui l’Italia è protagonista».
Tuttavia alla pace manca uno “scatto”: la disponibilità della Santa Sede a ospitare colloqui può aiutare?
«La valuto come un’opportunità per tutti. Il Vaticano può avere un ruolo fondamentale. Il discorso di Leone XIV sulla pace è largo, profetico, va oltre gli interessi politici ed economici che segnano queste fasi “negoziali’. È un appello alla pace universale, a una dimensione diversa dello stare insieme tra i popoli. Parliamo dunque di un’ipotesi affascinante, certo, ma soprattutto credibile e realmente facilitatrice».
Certo non sarebbe il luogo, la Santa Sede, in cui esibirsi in traccheggiamenti e tatticismi, non crede?
«Ma infatti: bisogna che il tempo del negoziato sia maturo. Russi e ucraini sono cristiani, questa è una guerra tra cristiani. Se si parleranno nella Santa Sede, non sarà certo per lasciare le cose così come sono adesso. Il Vaticano non è un albergo, per essere più chiari».
In uno scenario del genere Roma diventerebbe di nuovo crocevia dei colloqui trai potenti della terra, come avvenuto nel tempo della successione tra i due pontefici…
«Penso ritroverebbe vigore l’idea di Roma capitale della pace, riferimento per uscire dai conflitti di questo tempo. L’opportunità è importante: Roma ha già ospitato i colloqui Usa-Iran con mediazione dell’Oman, a luglio ospiterà il grande evento per la ricostruzione dell’Ucraina. A Roma abbiamo la sede Fao, con cui coordiniamo gli aiuti alimentari a Gaza».
Tuttavia il ruolo internazionale dell’Italia è sempre “sotto giudizio”: a Tirana venerdì scorso ci sono stati nuovi dissidi con la Francia di Macron, non è una bella immagine che si dà come Paesi europei…
«Possono esserci incomprensioni e protagonismi, ma mi pare che ora si guardi avanti. Non coinvolgere l’Italia è sempre un errore».
Lato Italia, però, non è un errore decidere di non partecipare ai tavoli per eventuali divergenze di vedute sulla strategia da adottare? A Tirana con Macron sedevano altri due Paesi contrari all’invio di truppe, Germania e Polonia…
«Ai tavoli è giusto partecipare e noi non vogliamo tirarci indietro. Però la nostra posizione deve essere ben ascoltata: se vogliamo costruire la pace dire che vogliamo mandare truppe in Ucraina non è un segnale coerente. E poi, dove li trovano questi Paesi le migliaia di uomini da schierare? Ho detto quale è la nostra idea, chiara: militari italiani in Ucraina andranno eventualmente soltanto sotto l’egida Onu».
Una domanda che inizia a circolare: un’eventuale pace porterebbe anche una “riabilitazione” internazionale di Putin?
«Una domanda cui non si può rispondere in una fase in cui non abbiamo nemmeno un cessate il fuoco. Abbiamo interesse per la pace perché dove passano le armi non passano le merci, e viceversa».
Infine, ministro: l’Ue per pressare Putin lo sanziona. Anche se si tratta di scenari completamente diversi, non crede che Netanyahu debba ricevere una pressione politica molto maggiore per quanto sta accadendo di tragico e letale a Gaza?
«Stiamo pressando ogni giorno, senza alcuna ambiguità. E continueremo a farlo. Poi se ci viene chiesto di assumere posizioni velleitarie io dico: da ministro faccio ciò che serve a fermare le morti innocenti, non mi limito a dire cose che non cambiano nulla. È amaro dirlo, ma è così: anche io sono per riconoscere la Palestina, ma se la riconosco da solo come Italia non cambia nulla. Si devono riconoscere Israele e Palestina reciprocamente, al culmine di un processo negoziale e politico. I passi concreti da chiedere sono che Hamas liberi gli ostaggi e lasci Gaza e che Israele interrompa le azioni militari che stanno portando morte e distruzione. E tutto questo deve accadere senza alcuna concessione a un nuovo antisemitismo».