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Intervento del Ministro Terzi al Convegno “Digital Media in zone di guerra”

(fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)


Direttore Generale della SIOI, Dottoressa Sara Cavelli,


Direttore Generale del Budapest Center of International Prevention of Genocide, Dottor Enzo Le Fevre,


Presidente dell’Italian Climate Network, Dottoressa Veronica Caciagli,


Signore e Signori,


è con grande piacere che introduco i lavori di questo seminario. Rivolgo innanzi tutto un caloroso saluto agli insegnanti e studenti presenti. Alcuni di loro partecipano al progetto europeo “Comenius/Enter”, centrato sui Digital media e i Social Network.


Vorrei ringraziare l’associazione “Muoviti per la Novità” – che ha collaborato all’organizzazione dell’evento – l’Università LUISS, che l’ha pubblicizzato, e l’associazione Amerigo, che ha garantito visibilità all’iniziativa.


Grazie mille anche agli amici della mia pagina Facebook, che hanno risposto numerosi all’appello; a Wired, la rivista che è media-partner di questo incontro; e ai relatori: il Generale Massimo Panizzi, Antonio Deruda, Amedeo Ricucci e Antonio Amendola. Un ringraziamento speciale alla moderatrice: la giornalista de La 7, Sonia Mancini.


Il possessore di uno Smart Phone può assurgere a protagonista della comunicazione globale raccontando in diretta gli eventi dei quali è testimone, e ingaggiando le istituzioni in un nuovo livello di dialogo. Me ne rendo conto in prima persona, in quanto utilizzo quotidianamente i miei account “social” su Twitter e Facebook. Anche se talvolta, quando rispondo ai tanti utenti che mi contattano, mi sento come colui che ha twittato la famosa frase “ho più social network, che tempo per scriverci sopra…”.


Il punto non è quindi “Social media SI, Social media NO”. La domanda è semmai “come governare” questi nuovi strumenti.


L’esperienza più recente dimostra che essi possono favorire il cambiamento. L’esempio più significativo sono state le Primavere Arabe, favorite dalle reti di libertà create dai digital media. Facebook e Twitter non possono certo rovesciare le dittature, ma possono connettere le coscienze, favorire l’organizzazione della protesta, convogliare le rivendicazioni e raccontare al resto del mondo ciò che accade durante una rivoluzione, specie quando i mass-media convenzionali sono oscurati dalla censura.


Le nuove tecnologie sono quindi veri e propri strumenti di democrazia. Anche con i rischi che ciò comporta. In primis, perché – come succede in certi Paesi – i partecipanti a forum di discussione online sono intercettati, identificati e a volte arrestati. Il messaggio di libertà e democrazia che arriva dai digital media va sostenuto, senza arretramenti. E occorre anche riflettere su cosa possiamo fare per far arrivare il web dove ancora non c’è, per fare sentire la voce dei più deboli, degli emarginati, dei perseguitati.


Secondo il rapporto “Web 2.0 versus Control 2.0”, pubblicato l’anno scorso da “Reporter Sans Frontieres”, sono almeno 60 i Paesi al mondo che censurano in vario modo la Rete e le nuove tecnologie, rallentando artificialmente la banda disponibile per la trasmissione dei dati, oscurando siti e blog, o ancora filtrandone i contenuti.


Negli scenari di guerra, i digital media hanno anche un altro scopo: documentare ciò che i media convenzionali non documentano. L’opinione di chi è costretto all’esodo, il lavoro del soldato che con coraggio protegge i civili, la storia del ferito ricoverato nell’ospedale… Televisioni e radio in genere raccontano “macro-storie”, ma non sempre si appassionano alle piccole storie di uomini e donne, che sono però utili per meglio comprendere gli eventi politici.


Per non parlare poi della “persistenza” delle informazioni sul web. Come diceva a Mark Zukerberg la sua amica Erica Albright: “Su internet non si scrive con la matita, ma con l’inchiostro”. Le immagini, le storie, gli episodi narrati sui blog restano come testimoni indelebili, a portata di un semplice click su Google. E spesso sono immagini e storie così “forti” che a distanza di tempo – e di migliaia di chilometri – possono ispirare nuovi movimenti.


In un mondo globale e interconnesso, ciò che accade in un continente può influire sul corso degli eventi in un’altra area del mondo. Per fare solo un esempio, nei colloqui avuti durante la mia missione in Asia, mi è stato detto che una delle ragioni per cui la giunta birmana ha deciso di avviare i processi di riforme democratiche sarebbe riconducibile all’effetto delle primavere arabe. Le immagini dei giovani arabi scesi nelle piazze ha prodotto aperture in un Paese geograficamente e culturalmente lontanissimo dal Mediterraneo.


Non mancano i “rischi di abuso”, come nel caso dei video di guerra registrati con microcamere poste sull’elmetto dai militari in missione. Una volta postati su Youtube, questi video ricevono centinaia di migliaia di visualizzazioni. Sono immagini di sicuro impatto, ma comportano il rischio di banalizzare l’azione di guerra e la sua drammaticità, trasformandola in un iper-realistico “video-game”, senza riflettere la complessità e tragicità del momento e senza permettere di percepire compiutamente la realtà che circonda il soldato: i morti, i rapporti a volte non semplici con le popolazioni civili, lo scenario intorno all’azione, le motivazioni, l’angoscia… tutti aspetti sacrificati in una comunicazione talvolta sensazionalistica.


Occorre grande professionalità nel raccontare eventi tragici come quelli di guerra. Il giornalista RAI Amedeo Ricucci, tra i relatori di questo seminario, ha dimostrato le sue grandi doti professionali e il suo coraggio quando ha documentato per giorni con uno smart-phone la guerra civile in Siria. Ricucci in un suo articolo ha raccontato alcune case-history, che fanno comprendere come la comunicazione sia profondamente cambiata con i digital media. Per esempio, il primo tweet da Haiti è stato postato 7 minuti dopo il terribile terremoto del 12 gennaio del 2010, mentre per organizzare la prima diretta televisiva dall’isola la CNN ha avuto bisogno di più di 24 ore. Un buco di informazioni, che i media tradizionali hanno colmato grazie al supporto di video, foto e contributi reperiti setacciando blog locali e social network, gli unici in grado di operare in tempo reale anche fra le macerie. Su Flickr sono state pubblicate in quel periodo 34mila foto, mentre su Facebook sono stati registrati 1500 post al minuto, e su Youtube i video dall’isola sono stati i più cliccati del mese di gennaio 2010 da milioni di persone nel mondo.


Anche in occasione del tragico terremoto de L’Aquila, sei minuti dopo il sisma la notizia aveva raggiunto tutti i media del mondo grazie a BNO News, una piccola agenzia on line che, con le sue antenne aperte giorno e notte sulla Rete, era riuscita a precedere tutte le altre agenzie.


Questo scenario presenta anche nuove opportunità per il giornalismo tradizionale: la CNN ha lanciato un proprio marchio, IReport, per reperire e trattare contributi user generated. IReport si è trasformata in una community on line: solo sull’Onda Verde iraniana, le proteste di piazza avvenute in quel Paese nel 2009, ha ricevuto 5200 contributi, di cui 180 mandati in onda.


La stessa medaglia presenta anche aspetti negativi. E’ aumentato il rischio di notizie infondate, come quella del sequestro della blogger siriano-americana Amina Arraf, che nel 2011, gestiva un blog molto seguito sugli eventi in Siria. Dietro quest’identità virtuale si nascondeva in realtà un maschio americano, residente in Scozia e attivista politico, il quale a un certo punto ha deciso di svelare il clamoroso falso identitario. Il problema però è che diverse autorevoli testate avevano ripreso il blog di Amina, utilizzandolo come fonte accreditata nelle notizie sulla Siria, mentre su Twitter e Faceboook la notizia del suo “sequestro” a opera del regime siriano aveva scatenato appelli e mobilitazioni in suo favore.


Se è vero che l’uso dei social network come fonte di notizia permette di raccogliere molti più materiali di prima mano sul terreno e consente una cronaca più rapida e accurata, è vero anche – come ci ricorda Ricucci – che la Rete resta un magma di comunicazione mista a propaganda. Per utilizzarla come fonte utile, c’è bisogno di giornalisti preparati e rigorosi nella verifica, capaci di filtrare, approfondire e contestualizzare i fatti.

Johann Wolfgang Goethe osservava che “Comunicare l’un l’altro, scambiarsi informazioni è natura, ma tenere conto delle informazioni che ci vengono date è cultura”. Ciò è ancor più vero al giorno d’oggi. Vedo tantissimi studenti in sala oggi, sono quindi fiducioso che questo messaggio possa essere raccolto appieno. Buon lavoro a tutti Voi!

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