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Dettaglio intervista

Il 16 novembre 2011 il saluto ai collaboratori all’Ambasciata a Washington dopo la nomina a capo della Farnesina e il giorno dopo il giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica come nuovo Ministro degli Affari Esteri. Qual è stato il suo ultimo impegno da ambasciatore e qual è stato il suo primo appuntamento da Ministro? Emozioni, sensazioni e stato d’animo: come è stato il suo primo giorno da titolare della Farnesina?


«Il 16 novembre dell’anno scorso è stato un giorno speciale per me e per la mia famiglia. Alla grande soddisfazione per la fiducia accordata mi si è unita una forte emozione nel salutare la mia squadra in Ambasciata, un gruppo di collaboratori straordinari con cui


fino a poche ore prima avevo lavorato sui tanti dossier nei quali si articola il rapporto fra Italia e Stati Uniti. Sono arrivato a Washington nell’ottobre 2009 guidato dalla profonda convinzione che mi ha accompagnato nel corso della carriera: ricordarsi sempre di essere un servitore dello Stato.


La stessa convinzione mi guida oggi nelle funzioni di Ministro degli Esteri».


Nel suo primo giorno da ministro, uno dei primi attestati di stima è arrivato dal capo della diplomazia tedesca Guido Westerwelle, ribadendo che il governo tedesco ha fiducia nel ruolo che potrà essere svolto dall’Italia per gestire la crisi finanziaria dell’Eurozona. Poche settimane fa Westerwelle, ha espresso critiche a Monti e sulla possibile concessione di una licenza bancaria al fondo salva-stati Esm, (sulla cui costituzionalità deciderà il 12 settembre l’Alta Corte di Karlsruhe). Quanto pesa il futuro dell’Eurozona sulla decisione della Corte Costituzionale tedesca sulla legittimità dell’Esm (Meccanismo europeo di stabilità)?


Per salvare l’Euro sarà sufficiente dotare di una licenza bancaria il fondo salva-stati Esm?


Anche secondo Lei (come per Westerwelle) “L’Europa può anche fallire sull’altare di un’eccessiva solidarietà”?


«L’acuirsi della crisi e le sue ripercussioni sull’Euro avrebbero per Berlino costi economici e politici maggiori di quelli che discenderebbero dalle garanzie concesse al MES gravando sul bilancio federale. È un dato, questo, di cui non si può non tenere conto. Lei parla di “salvare l’Euro”. Sono convinto che l’Europa vincerà questa sfida. A Bruxelles, il 28-29 giugno, sono state adottate misure idonee ad affrontare la crisi, riaffermando la volontà comune di proseguire il percorso di integrazione. Grazie anche all’impegno italiano, l’agenda europea si sta ora concentrando sul duplice obiettivo di riequilibrare i mercati nell’immediato e sostenere la crescita. La soluzione della crisi passa dalla capacità dell’Europa di darsi un approccio complessivo,articolato e bilanciato basato sulla combinazione efficace di disciplina fiscale, riforme strutturali, stimolo alla crescita».


Dal 29 gennaio 2012, il generale Paolo Serra ha assunto il comando della missione delle Nazioni Unite nel Libano del Sud (Unifil). All’Italia il migliaio di caschi blu italiani impegnati nel Sud del Libano costa circa 158 milioni l’anno. Cosa costerebbe al Paese se, vista la crisi, per risparmiare ci ritirassimo dal Libano?


«Pagheremmo un prezzo politico altissimo. E’ impensabile, sarebbe un danno gravissimo alla nostra statura internazionale, a maggior ragione in questa fase cruciale della crisi siriana.


Il Libano è fondamentale per la stabilità dell’area mediterranea e mediorientale, che a sua volta esercita un’incidenza decisiva sulla nostra sicurezza. L’Italia assicura un contributo essenziale all’attuazione della Risoluzione 1701, che definisce mandato e compiti della missione UNIFIL. Il compito della missione è quello di mantenere il “cessate-ilfuoco” nel Sud del Libano dopo la guerra del 2006, con l’obiettivo – finora assolto efficacemente anche grazie alla riconosciuta qualità della nostra leadership – di stabilizzare l’area e prevenire ulteriori recrudescenze e tensioni. La missione svolge inoltre un ruolo fondamentale per assicurare il dialogo tra le Parti nel formato a tre ONU-Forze armate libanesi- Forze armate israeliane.


La nomina del Generale Serra è avvenuta a soli due anni dal termine del mandato del Generale Graziano. Il conferimento ad un altro ufficiale italiano del comando di una delle più delicate missioni ONU è stato un grande riconoscimento per l’Italia e per le nostre Forze Armate da parte dei nostri partners. Esiste ormai un vero e proprio “stile italiano” nella condotta delle operazioni, che è divenuto un modello nella gestione delle missioni internazionali. Sarebbe assurdo andarsene».


Lo scorso 15 febbraio, due marò in servizio sulla petroliera Enrica Lexie sono stati arrestati dalle autorità indiane e sono detenuti con l’accusa di aver ucciso due pescatori erroneamente scambiati per pirati. Prendendo come punto di riferimento il diritto internazionale perché l’India contesta la giurisdizione italiana sull’accaduto e per quale motivo Nuova Delhi non riconosce l’immunità di Latorre e Girone? In che modo si potrebbe risolvere la vicenda e in quanto tempo?


«Non esiste uno scenario in cui i nostri due ragazzi non ritornino a casa dai loro cari. Il Governo, i Ministri più direttamente coinvolti ed io personalmente siamo impegnati quotidianamente e non risparmiamo nessuno sforzo e iniziativa, a tutti i livelli e in tutti i fora internazionali, per far si che ciò accada il più presto possibile. Il diritto internazionale è dalla nostra parte. Sono certo che riusciremo a riportare a casa i nostri ragazzi, che facevano il loro dovere e sono stati tratti in fermo con l’inganno. Ci siamo adoperati per garantire la loro sicurezza personale e la loro dignità di organi dello Stato, avvalendoci a tal fine di tutte le procedure previste dal sistema giudiziario indiano. Continueremo a svolgere un’intensa attività diplomatica nelle principali sedi – ONU, G8, Unione Europea – e con i nostri partner, per riaffermare l’esclusiva giurisdizione italiana, cominciando dagli appuntamenti internazionali delle prossime settimane, fra cui l’Assemblea Generale ONU a New York. Il Governo nella sua collegialità proseguirà il suo impegno con la necessaria costanza e determinazione».


Il 25 giugno un altro italiano ucciso in Afghanistan. Il 51° dall’inizio della missione nel 2004. La vittima è stato il trentenne carabiniere scelto Manuele Braj, colpito da un razzo sparato contro la base di Adraskan e Lei ha parlato di “vile attentato”. Per quando è previsto il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan? Si legge di una uscita progressiva, qual è la tabella di marcia?


«Nel 2010 al Vertice NATO di Lisbona e nel 2012 a quello di Chicago, abbiamo stabilito di rafforzare le capacità dell’Afghanistan di assicurare autonomamente la propria sicurezza di qui al 2014, quando il ritiro delle truppe alleate sarà completato. Il processo sta avanzando, ma l’Afghanistan deve rimanere al centro dell’agenda internazionale, come dimostrano anche i drammatici eventi di questi giorni, i ripetuti attacchi al nostro contingente e gli orrori riconducibili agli integralisti islamici nel sud del Paese. E rimane valido il principio che ha guidato l’azione della NATO in Afghanistan: together in, together out. Il ritiro non significa che non sosterremo più Kabul. I risultati del nostro impegno militare e diplomatico, anche in termini di progresso civile, sono un patrimonio degli afghani che deve essere duraturo ed ulteriormente messo a frutto. Pensiamo ad esempio che la percentuale delle studentesse è cresciuto del 38% e il Parlamento afghano è composto per il 28% da donne. Ma molto ancora deve essere fatto. Da qui al 2014 dovremo misurarci con tre sfide: procedere con gradualità al ritiro; rafforzare le capacità afghane di autodifesa; contribuire allo sviluppo economico e sociale del Paese promuovendo nuovi investimenti e maggiore cooperazione. E’ lungo queste direttrici che stiamo lavorando».


L’11 luglio è nato a Roma l’Osservatorio della Libertà Religiosa, un organismo promosso dal ministero degli Esteri italiano e dal sindaco di Roma capitale, Gianni Alemanno, in difesa della libertà religiosa e nella denuncia delle persecuzioni subite dai cristiani nel mondo. Dal punto di vista religioso si registrano stragi in Nigeria, attacchi ripetuti in Kenia, violenze nell’Orissa indiana, chiusure di chiese in Indonesia e minacce continue in Siria. L’Italia cosa sta facendo e cosa può fare per fermare l’ondata di violenza nei confronti dei cristiani?



«La tutela della libertà di religione è una priorità assoluta della nostra politica estera. Ho sostenuto l’istituzione a Roma dell’Osservatorio per lo studio, l’analisi e il monitoraggio dello stato della libertà di culto nel mondo. L’Italia è fortemente impegnata in ogni sede per riaffermare i valori universali del dialogo e della tolleranza, e la tutela del diritto di ogni individuo di professare liberamente il proprio culto è un indicatore fondamentale del livello di civiltà di un Paese. La Farnesina, attraverso la propria rete diplomatica, svolge anche il ruolo di vigilare ed esercitare pressioni su quei Paesi dove permangono violenze, discriminazioni e persecuzioni ai danni di confessioni religiose. Mi sono molto adoperato affinché la libertà religiosa si affermi come questione prioritaria per l’Europa. A luglio la Task Force dell’UE sulla libertà religiosa, istituita su impulso italiano, si è riunita a Bruxelles per mettere a punto le linee guida sulla libertà di religione, concepite come istruzioni operative per le Missioni dell’Europa e degli Stati membri nelle aree in cui quella libertà è più a rischio. Naturalmente continua il nostro impegno anche in sede ONU. Nel dicembre dello scorso anno l’Assemblea Generale ha adottato la risoluzione UE sulla libertà di religione che, anche sulla base delle proposte dell’Italia, ribadisce il dovere degli Stati di prevenire le violenze contro le minoranze religiose e perseguire i responsabili. La Farnesina sta organizzando il Seminario “La società civile e l’educazione ai diritti umani come strumenti di promozione e diffusione della tolleranza religiosa”, al Palazzo di Vetro il 27 settembre, in occasione della prossima Assemblea Generale, con l’obiettivo di definire una linea d’azione comune e promuovere la libertà di religione anche sulla base di un’accresciuta, comune consapevolezza».


Nei Paesi a maggioranza musulmana sono maggiori gli attentati anticristiani. Quali sono le ragioni di questa violenza? Non crede che la mancanza di reciprocità nel trattamento delle minoranze tra l’Occidente cristiano e i Paesi islamici costituisca un problema a livello di integrazione? Un sistema di incentivi-disincentivi diplomatici (come, ad esempio, sostegno finanziario a chi garantisce i diritti delle minoranze) non potrebbe spegnere questa ondata di violenze?


«Il terrorismo anticristiano mira anche a destabilizzare i Paesi teatro degli attentati, che mietono vittime anche fra i musulmani moderati. Gli Stati devono dunque essere consapevoli che tutelare le minoranze religiose, oltre che un dovere, è anche un loro interesse: il terrorismo mina la convivenza pacifica interna e, di conseguenza, la stabilità degli Stati, spesso con gravi ripercussioni regionali. Ma la libertà di religione è un imperativo etico e politico assoluto, che non può essere subordinato a logiche di reciprocità, fermo restando che lo sviluppo economico e sociale e la formazione sono potenti antidoti all’intolleranza religiosa, che a sua volta alimenta la violenza e il terrorismo. Per questo l’Italia realizza progetti per favorire la convivenza tra gruppi religiosi, sia con interventi di emergenza, sia sul terreno dell’educazione e della formazione delle classi dirigenti. Ricordo, come esempi significativi, che l’Italia si è fatta carico della cura dell’attentato contro la cattedrale cristiana di Baghdad, e che stiamo costruendo una clinica nel quartiere cristiano di Erbil e un centro talassemico in un villaggio nella provincia di Ninive dove si trova la più grande comunità cristiana in Iraq. Stiamo anche contribuendo alla costruzione di case per giovani famiglie cristiane per contrastare l’emigrazione dei cristiani di Terra Santa, che ormai rappresentano solo poco più del 2% della popolazione totale».


In questi mesi l’ azione del Governo ha condotto alla liberazione di 27 cittadini italiani rapiti all’estero. Il 19 luglio, dopo 268 giorni di sequestro, l’Italia ha riabbracciato Rossella Urru, la cooperante sarda rapita lo scorso 23 ottobre a Tinduf, al confine tra Algeria e Mali. Come è stata possibile la liberazione di Rossella Urru e Lei come ha vissuto i trepidanti istanti della liberazione?


«Ho seguito personalmente ogni fase di questa vicenda. La liberazione di Rossella ha richiesto un costante impegno del Ministero degli Esteri e di tutti gli attori istituzionali coinvolti. Vorrei anche ricordare l’ammirevole senso di responsabilità della famiglia Urru, con la quale abbiamo seguito, alla Farnesina, le fasi che hanno immediatamente preceduto la liberazione. Non appena ho avuto la conferma che Rossella era stata liberata e aveva raggiunto un luogo sicuro, ho avvisato di persona i suoi cari, e l’indomani con viva emozione sono andato ad accoglierla personalmente all’aeroporto con il Presidente Monti. Credo che Rossella sia esempio di quanto di meglio l’Italia ha da offrire al mondo. Assistere alla felicità della famiglia Urru, finalmente riunita, ci ha ripagati ampiamente dei nostri sforzi»


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Il Sahel è una vasta area controllata da signori della guerra, gruppi armati, tribù nomadi e non più dai governi centrali di Algeri e Bamako. Quali difficoltà incontra la diplomazia quando non trova davanti a se uno Stato alla pari con cui negoziare, ma piccoli gruppi armati, collegati a grandi reti criminali?



«La diplomazia italiana serve proprio per affrontare situazioni complesse come quella del Sahel. Abbiamo un fruttuoso dialogo politico con l’Algeria, dove sono stato in visita a marzo e con cui abbiamo in programma un Vertice Intergovernativo, centrato anche sul tema della sicurezza regionale. Esattamente un anno fa Algeri ha promosso una Conferenza regionale sul Sahel per rafforzare la cooperazione fra i Paesi dell’area e i principali partner, fra cui l’Italia, allo scopo di favorire la sicurezza e lo sviluppo economico e sociale nella regione. Di Sahel abbiamo parlato anche a febbraio, allorché la Riunione Ministeriale 5+5 ha riunito, per la prima volta dopo le primavere arabe, a Roma i dieci Paesi del Mediterraneo occidentale, ed è stata allargata anche a Egitto, Turchia e Grecia. Aggiungo che il dialogo fra l’Europa e i Paesi del Mediterraneo consente di affrontare la questione del Sahel, anche grazie alla nostra costante azione di sensibilizzazione svolta a Bruxelles».


Nonostante le richieste dei manifestanti siriani siano analoghe a quelle dei loro omologhi libici e la repressione di Assad non sia inferiore a quella di Gheddafi, l’Occidente sta affrontando la crisi in Siria in modo molto diverso rispetto a quella in Libia. Perché la comunità internazionale non interviene in Siria? Per quali motivi la posizione di fronte al dramma della Siria non è univoca?



«L’intervento militare non è un’opzione praticabile, ma la comunità internazionale, ed in particolare il Gruppo dei Paesi Amici del popolo siriano, di cui l’Italia è parte, è pienamente consapevole della necessità di porre fine con urgenza al conflitto e consentire al popolo siriano di decidere liberamente del suo futuro. La strategia comune è quella di assistere in tutte le maniere possibili il popolo e l’opposizione per resistere a un regime, in crisi irreversibile, ma ancora capace di violenze ed efferatezze. Allo stesso tempo si sta anche operando per poter aiutare la Siria nel dopo- Assad. Il sostegno ad una transizione politica a guida siriana, ormai inevitabile, è nostro dovere ed è anche nostro interesse. L’Italia è molto attiva: nel dialogo con tutte le componenti dell’opposizione siriana, nel raccordo con i principali partner e con la Lega Araba, negli interventi umanitari, e anche nella riflessione concreta sul ruolo della comunità internazionale in quella che vogliamo sia presto la “nuova Siria”».


Prima ha aperto un profilo ufficiale su Twitter e ora una pagina su facebook. Twitter e i new media come influenzano l’azione diplomatica? Possono costituire una fonte credibile per la formazione dell’opinione pubblica sui temi della politica internazionale?


«I social network sono un’opportunità unica per le diplomazie per cogliere, creare e veicolare informazioni. Milioni di persone possono essere raggiunte dove si trovano e condividere con noi le nostre idee e il nostro lavoro. La “Twiplomacy” avvicina la politica estera ai cittadini, e i nostri messaggi devono essere forti e chiari per essere compresi anche da chi non ha familiarità con la politica internazionale. Con il web le distanze si riducono e i confini tra gli Stati sono più facilmente attraversabili. Oggi chi vuole informare e fare opinione deve confrontarsi con uno spazio accessibile a chiunque, in cui ciascuno può creare informazioni e condividere opinioni. La diplomazia è al servizio dei cittadini e delle imprese e fornisce loro servizi concreti. Ho voluto che la Farnesina si modernizzasse radicalmente nei contenuti e negli strumenti della sua comunicazione, e io stesso ho aperto un mio canale twitter, perché dobbiamo interessare al nostro lavoro il pubblico più ampio possibile, dialogando con trasparenza, e facendo conoscere i servizi che offriamo».