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Dassù: Democrazia, la lezione di San Suu Kyi (La Stampa)

Caro direttore,


nella politica internazionale i nomi contano. «Nomen Omen» dicevano gli antichi romani. I nomi sono più di un semplice identificativo. Ci raccontano delle origini e, soprattutto, lasciano presagire qualcosa del futuro delle cose.


Con Myanmar è lo stesso. Nel corso della sua storia il Paese ha cambiato nome varie volte, quasi sempre con una forte valenza politica. Da Burma, come veniva chiamato dagli inglesi durante il periodo coloniale, il nome locale è passato a Myanma con l’indipendenza del 1948. Negli Anni Settanta, il nome di un Paese che per noi italiani suonerà sempre Birmania ha conosciuto ulteriori evoluzioni, fino a quando il regime militare al potere ha imposto Myanmar. Sono i nomi simbolo di una travagliata storia politica: per quasi mezzo secolo, questo Paese strategico fra Cina e India – schiacciato fra due giganti o ponte fra loro -ha vissuto isolato dal mondo.


Pochi giorni fa Emma Bonino ha ricevuto a Roma il ministro degli Esteri di Myanmar, Wunna Maung Lwin. Ma ha parlato, ha potuto parlare, agli amici «birmani». Dopo decenni di dittatura militare, Myanmar ha infatti avviato, a partire dal 2011, un percorso di transizione verso la democrazia. Un percorso certamente incompiuto ma promettente. Il governo civile «garantito» dai militari ha varato riforme politiche ed economiche, volute dal presidente Thein Sein e di cui un Paese a lungo sottoposto a sanzioni internazionali ha oggi vitale bisogno. Progressi e limiti di questa svolta – dell’apertura che potrà fare di Myanmar una nuova frontiera asiatica – verranno messi alla prova con le elezioni del 2015. Ma il punto è questo: per scelta o per necessità, il Presidente va oggi considerato un riformatore.


Facciamo, per capire meglio, un passo indietro. Negli anni della chiusura e delle sanzioni internazionali, i vari centri di interesse, aggregati dai militari attraverso imprese statali ed una fitta rete clientelare, hanno favorito una corruzione diffusa, grazie allo sfruttamento dell’ingente patrimonio di materie prime (gas, pietre preziose). In un Paese membro «attivo» del triangolo d’oro della droga, criminalità e traffico di essere umani hanno prosperato, aggiungendosi a storiche e ancora accese rivalità etniche e religiose. Tutto questo ai danni di una popolazione in condizioni di povertà estrema ed esposta a brutali violazioni dei diritti civili, economici e sociali. Dal lavoro forzato ai bambini soldato.


Se l’ eredità storica è questa, la svolta avviata nel 2011- con la liberazione di una parte dei prigionieri politici, l’avvio della transizione democratica e la progressiva liberalizzazione del mercato – costituisce per la popolazione birmana un nuovo capitolo. Una svolta vera, anche se ancora parziale.


Da questo pomeriggio Aung San Suu Kyi – protagonista di una lunga e pacifica battaglia per la democrazia nel suo Paese – sarà a Roma, invitata e accolta da Emma Bonino per una serie di incontri importanti. Il suo caso insegna come un gruppo di opposizione non violento e determinato possa diventare il catalizzatore di un cambiamento virtuoso, creando le condizioni perché un potere autoritario accetti di negoziare progressive concessioni: l’equilibrio viene di fatto alterato grazie alla forza delle idee. E’ una lezione di metodo e di coerenza: non solo per le democrazie in divenire ma in fondo anche per quelle invecchiate, che a tratti sembrano avere smarrito il senso di sé. Anche per la politica estera, il caso birmano contiene lezioni importanti. Dimostra, infatti, quanto situazioni politiche molto difficili siano suscettibili di influenza diplomatica se le nostre carte vengono giocate con un senso chiaro della prospettiva: puntando sulla transizione, l’Unione europea ha assunto nel luglio 20131a decisione di cancellare le sanzioni imposte nel lontano 1996. L’Italia ha svolto in questa evoluzione un ruolo anticipatore (riconosciuto sia dal governo che da San Suu Kyi), grazie ai primi viaggi solitari di Bonino e poi all’azione dell’inviato speciale della UE, Piero Fassino, nella fase cruciale tra il 2007 e il 2011. Il caso birmano, visto in questa ottica, è interessante per la discussione più generale sulla efficacia delle sanzioni: come strumenti di pressione nel medio e lungo termine possono avere effetti sostanziali, a patto di saperle usare con flessibilità quando arriva il momento eli testare la buona volontà dell’altra parte.


Ha contato e conta, naturalmente, anche l’importanza della collocazione geopolitica di Myanmar, Paese che – come ricordavo all’inizio – è stretto, e in qualche modo compresso, tra l’India e la Cina. Tuttavia, la capitale birmana è gradualmente riuscita a ritagliarsi un suo spazio dinamico, giocando la carta regionale, la carta dell’Asean, che punta ormai a costruire un mercato integrato di varie centinaia di milioni di persone.


Con grandi risorse naturali e con questa proiezione regionale, l’economia birmana ha oggi un notevole potenziale. E l’Italia ha una posizione di vantaggio da utilizzare, per il ruolo politico che ha giocato a favore dell’apertura e per le scelte già compiute in materia di cancellazione del debito. Gli spazi per accordi importanti di cooperazione economica sono stati discussi nei giorni scorsi alla Farnesina.


Restano aperti dossier delicati – dai limiti della Costituzione, al trattamento delle minoranze musulmane, alle condizioni di lavoro. Sono limiti veri e da verificare nel tempo: anche per questo, saranno indicative le condizioni in cui si svolgeranno le elezioni del 2015 (come sottolinea, fra l’altro, la mozione unitaria approvata nei giorni scorsi dal Senato italiano).


La lezione birmana dimostra che il cambiamento è sempre possibile. Ma anche che richiede – per riuscire – coraggio, fermezza e pazienza. Da parte dei protagonisti locali, anzitutto. E da parte di attori internazionali che, almeno in questo caso e con un contributo preveggente dell’Italia, hanno trovato il modo giusto per appoggiare l’avvio di una transizione politica che sembrava impensabile quando la Birmania lasciò posto al Myanmar.

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