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Gentiloni: «Libia, un accordo subito o dovremo affrontare un’altra Somalia» (La Stampa)

I migranti continuano a morire nel Mediterraneo, si parla di 2500 vittime dall’inizio dell’anno. Ministro Gentiloni, cosa stiamo facendo e cosa potremmo fare?

«Quest’anno abbiamo avuto un record di arrivi ma anche un record di salvataggi in mare. Purtroppo per quanto lavoro si faccia, e grazie a noi è finalmente condiviso dall’Europa, non si riescono a impedire episodi tragici. Ma dobbiamo essere orgogliosi del nostro paese perché, nonostante le vittime, siamo protagonisti di una eccezionale operazione umanitaria. Altri alzano muri o litigano per poche centinaia di migranti ai confini».

Il ministro Alfano ha parlato di vulcano Libia, il paese da cui partono i migranti. La transizione post Gheddafi è fallita?

«Non dobbiamo perdere la speranza di trovare una base minima per ricostruire una Libia unita e più stabile. Far rullare i tamburi senza questa base minima è inutile, dobbiamo insistere sul piano negoziale. Il dialogo riprende mercoledì in Marocco ma bisogna sapere che corriamo contro il tempo affinché ciò che è stato messo insieme il 12 luglio, ossia Tobruk Misurata Zintan e gran parte delle municipalità di Tripoli, possa consolidarsi e magari estendersi al Gnc (parlamento di Tripoli, ndr). Il tempo è cruciale e non è illimitato, specialmente oggi che la presenza di Daesh a Sirte ha assunto caratteristiche allarmanti: o si chiude in poche settimane o ci troveremo con un’altra Somalia a due passi dalla costa e dovremo reagire in modo diverso. Come? Ponendo nell’agenda della coalizione internazionale anti-Daesh il tema Libia, sapendo che non si tratterebbe più di stabilizzare il paese ma di contenere il terrorismo».

Fu un errore intervenire in Libia nel 2011?

«Un errore è stato senza dubbio non associare all’intervento alcuna idea sulla gestione del dopo. L’Italia su questo avrebbe potuto farsi sentire, ma purtroppo ci siamo accodati a quella operazione con il governo forse più debole della nostra storia repubblicana, parlo dell’ultimissima fase dell’ultimo governo Berlusconi. Oggi qualsiasi nuovo intervento va posto nel quadro di un percorso di pacificazione condivisa dai libici. L’Italia contribuirà ma a queste condizioni».

Come racconta anche il reportage del direttore Calabresi da Symi, l’esodo dalla Siria è quello della classe media. Stiamo facendo abbastanza? È stato un errore non intervenire in Siria?

«L’Italia ha fatto la sua parte: due anni fa è stata la prima, grazie all’ex ministro Bonino, a scoraggiare la tentazione di “risolvere” la crisi siriana solo con qualche bombardamento contro Assad. Mi pare che oggi questa posizione sia più condivisa, specialmente dopo l’accordo sul nucleare iraniano. Assistiamo a un riavvicinamento tra chi voleva bombardare Assad prima di discutere e chi voleva difendere Assad a oltranza. Ora si parla di transizione politica e uscita eventuale di Assad ma non nel vuoto. Certo siamo ancora lontani ma lavoriamo: la diplomazia fatica in questo mondo senza superpotenze».

Alla base della polemica con i vescovi c’è l’accusa alla politica di drammatizzare poche decine di migliaia di disperati a fronte di 60 milioni di migranti nel mondo. Cosa risponde?

«Il messaggio della chiesa merita comunque rispetto. Naturalmente un governo deve gestire e regolare l’accoglienza e non può solo dire venite e sarete accolti. Ma il nostro governo ha anche il dovere di contrastare chi spaccia paure o illusioni, paventando l’invasione che non c’è o promettendo la soluzione facile che non esiste. Maroni è stato al Viminale più di chiunque negli ultimi vent’anni. Non ho visto miracoli. L’immigrazione non è una catastrofe improvvisa bensì un fenomeno che sarà permanente per i prossimi 10, 15 anni. Può cambiare l’entità del flusso, la Siria raccontata da Calabresi ci dice per esempio che se l’anno scorso i siriani venivano soprattutto in Italia adesso vanno sulla rotta Turchia-Grecia. Ma la sfida va affrontata a viso aperto: l’immigrazione va gestita e regolata con i suoi rischi e le sue opportunità. Non possiamo cambiare la geografia né infangare la nostra storia di paese civile. Chi invoca una chiara identità di sinistra per il Pd la cerchi su questo terreno, piuttosto che sulle preferenze o sul modo di eleggere i senatori».

A 70 anni da Hiroshima: c’è da fidarsi dell’accordo sul nucleare iraniano?

«Non è scontato ma la storia consente di sperare che un paese come l’Iran possa ridiventare protagonista positivo. L’accordo spinge in questa direzione».

Rischiamo una nuova guerra fredda con Putin?

«Sarebbe una assoluta iattura, mi auguro che da parte russa non ci siano azioni che giustifichino una svolta del genere. Noto che la linea del doppio binario, sanzioni e dialogo, è oggi maggioritaria nella comunità internazionale. Ci sono rischi. La situazione va tenuta d’occhio perché la tregua è fragilissima. Non temo solo l’escalation ma scenari di crisi ucraina di cui la Russia potrebbe approfittare. L’Italia persegue ostinatamente la via del dialogo».

Obama a Cuba cambia un paradigma storico: rimpiangeremo gli Stati Uniti poliziotti del mondo?

«Non mi iscrivo nè al partito di chi criticava gli Usa poliziotti del mondo nè a quello di chi oggi li rimpiange. Obama aveva detto che si sarebbe ritirato dall’Iraq e dall’Afghanistan e lo ha fatto, che avrebbe lavorato con l’Asia senza dimenticare il Medioriente e lo ha fatto. Ha mantenuto la promessa sull’Obamacare. E ha teso la mano a Cuba e all’Iran. Ai tanti critici di Obama dico di aspettare 10, 15 anni e poi giudicheremo».

I Marò torneranno a casa?

«L’Italia è convinta delle sue buone ragioni, la Enrica Lexie era in acque internazionali e i due marò erano “on duty”, in servizio anti pirateria».

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