«Dalle crisi in Siria e Libia emerge la necessità di un concerto mediterraneo. Grandi potenze, potenze europee e potenze regionali influenti si mettono insieme per lavorare a delle soluzioni. Ma è qualcosa che dovremmo sforzarci di rendere stabile, con fili minimi che lo rendano possibile: misure di fiducia reciproca, scambi economici, collaborazione contro il terrorismo. Tutti viviamo il bisogno di ricostruire un nuovo ordine, ora che quello vecchio si è sgretolato. L’esperienza di questi tavoli va vista oltre che per la difficile impresa di risolvere le crisi del giorno, anche come prefigurazione di una nuova architettura per la sicurezza nel Mediterraneo, oggi preda del disordine totale».
É stata una settimana importante per Paolo Gentiloni e la sua Farnesina. Roma è stata crocevia di tutta la diplomazia mondiale. Prima la Conferenza RomaMed, poi il vertice sulla Libia hanno marcato un successo per l’Italia, tornata a giocare un ruolo di primo piano, dopo essere stata tagliata fuori su dossier come l’Iran o l’Ucraina: se il meccanismo che tendeva a consolidarsi in Europa era quello di un’avanguardia diplomatica composta da Germania, Francia e Regno Unito, ora se ne profila un altro, nel quale il nostro Paese è presente in pianta stabile.
Ieri Obama ha ringraziato vari Paesi, fra cui l’Italia, per l’impegno nella coalizione anti Daesh-Isis: l’annuncio del presidente del Consiglio di inviare altri 450 soldati a protezione della diga di Mosul in Iraq fa parte di questo?
«Si tratta di un intervento di importanza strategica in cui i lavori di manutenzione verranno protetti da forze italiane e da peshmerga curdi in una zona del Kurdistan iracheno molto vicina all’area controllata da Daesh».
Obama ha detto anche che bisogna colpire più duramente i jihadisti in Siria. L’Italia rimane sulla linea di non impegnarsi direttamente nei combattimenti?
«L’Italia è molto attiva dentro il processo diplomatico sulla Siria, giunto a uno snodo fondamentale, anche alla luce dei colloqui tra Kerry e Putin. La settimana scorsa a Riad si è costituito un cartello delle opposizioni ad Assad. Ci sono le premesse perché a gennaio comincino i negoziati tra il regime e le opposizioni, avvio che dovrebbe coincidere con il cessate il fuoco. Da quel momento scatterebbero i 6 mesi durante i quali ci dovrebbe essere l’inizio della transizione. Durante questo processo secondo noi dovrebbe esserci l’uscita di scena di Assad, ma al tavolo negoziale non è ancora un esito dichiarato».
Perché questa volta sulla Libia è diverso?
«Se è diverso, lo vedremo nei prossimi giorni. L’importante nel vertice di domenica, del quale la diplomazia italiana deve essere orgogliosa, è che attorno al coraggio e alla volontà delle maggioranze dei due organismi libici, siamo riusciti a costruire il massimo di consenso internazionale possibile. Resta il fatto che le prossime mosse sono nelle mani delle parti libiche».
Uno dei suoi predecessori, Emma Bonino, ha evocato il rischio di una fretta eccessiva nel forzare l’accordo.
«I rischi sono evidenti ma il tempo non è infinito. C’è la determinazione delle due maggioranze di andare avanti e della comunità internazionale di sostenerli, cercando di essere più veloci della degenerazione della situazione e della diffusione della minaccia di Daesh, che possono portare ogni cosa fuori controllo. Hanno ragione tutti coloro che dicono che ora occorre coagulare il maggior consenso possibile, cercando di allargarlo a tribù, milizie e municipalità. É quanto l’Italia fa da mesi».
Dove vede le criticità?
«Per definizione in un Paese troppo frammentato. Non sarà semplice mettere insieme una massa critica capace di riportarlo sotto una guida unitaria. Ci saranno ostacoli infiniti. E il primo sarà probabilmente il trasferimento del nuovo governo a Tripoli, che richiede garanzie adeguate di sicurezza. Ma la corsa a ostacoli ha anche tre potenti fattori positivi: il sostegno della comunità internazionale registrato a Roma; la possibilità che si traduca rapidamente in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza; la diffusa disponibilità delle più diverse componenti libiche, a cominciare dalle tribù, di volersi riappropriare di una nazione con grandi risorse e potenzialità enormi».
Una volta consolidata la soluzione politica, con la costituzione di un esecutivo di unità nazionale e il successivo riconoscimento dell’Onu, il nuovo governo potrebbe chiedere garanzie di sicurezza. In che modo le forniremo? E con quale ruolo per l’Italia?
«Avremo un ruolo di assoluta rilevanza insieme alla comunità internazionale. Ma i protagonisti devono essere gli stessi libici. La storia è piena di esempi di situazioni rivoluzionarie, in cui milizie che si sono combattute vengono poi integrate in un sistema di sicurezza nazionale. Dove non è stato fatto, ci sono stati grossi problemi. Questa mi auguro sarà una delle grandi sfide del prossimo anno».
Ma la sfida della sicurezza è anche esterna, cioè quella posta dalla presenza di Isis-Daesh. Contribuiremo anche alla lotta ai jihadisti?
«Lo faremo nella misura che ci verrà richiesta dalla comunità internazionale e dalla Libia. Saremo in prima fila anche per motivi legati alla storia, alla geografia e all’attualità, quella delle migrazioni e delle minacce terroristiche. Ma se il processo non riuscisse ad andare avanti con la rapidità e la solidità necessarie, non siamo indifesi: possiamo far fronte lo stesso a queste minacce».