«L’Europa attraversa una delle fasi più difficili degli ultimi 60 anni. Non ha bisogno di polemiche inutili da Bruxelles. L’Italia non ne fa, ma rispetta le regole dell’Unione e vuole essere rispettata». Risponde così Paolo Gentiloni, alle critiche senza precedenti lanciate da Jean Claude Juncker all’indirizzo del governo italiano. Il ministro degli Esteri preferisce concentrarsi sulle sfide che sono davanti all’Unione.
Nell’ultimo mese abbiamo fatto diverse cose, non tutte in sintonia fra di loro in Europa: iniziativa congiunta con Londra, critiche a Germania e a Commissione, iniziativa dei sei Paesi fondatori per il rilancio dell’integrazione. C’è una strategia che sta dietro tutto questo attivismo?
«Oltre a difendere, come fanno tutti, i propri interessi nazionali e i propri diritti, l’Italia scommette sul rilancio dell’Unione nella convinzione che da un lato esso debba essere legato a una politica economica più espansiva, dall’altro alla prospettiva di un gruppo di Paesi che possa avanzare nell’integrazione, anche in presenza di altri partner che questo sviluppo non vogliono. Dal mio punto di vista non c’è contraddizione tra condividere con gli inglesi l’idea di un’Europa a due cerchi concentrici e contemporaneamente progredire nel livello di integrazione tra Paesi disponibili».
Juncker ci contesta la mancata apertura degli hot spot, i decimali di flessibilità sul bilancio che ci siamo presi senza concordarli con la Commissione, la riserva sui fondi alla Turchia per i rifugiati siriani.
«Se il tema è la flessibilità, l’Italia usa i margini previsti dalle regole in vigore. Mi sembra non rilevante la polemica su chi l’abbia introdotta. E’ ovvio che operativamente è stata una direttiva della Commissione, ma politicamente fu un’iniziativa della presidenza italiana».
Lei dice che l’Italia rispetta le regole, ma Juncker definisce “stupefacente” la riserva a finanziare la sua quota dei 3 miliardi promessi ad Ankara per i rifugiati siriani. Perché freniamo?
«L’Italia non può certo essere accusata di frenare sull’immigrazione o sul dialogo con Ankara. Si discute sulla possibilità che i 3 miliardi gravino sul bilancio comunitario più che su quelli degli Stati membri. Tutto qui».
Dal punto di vista delle alleanze necessarie, è saggio oggi avere un atteggiamento critico nei confronti della Germania?
«Noi abbiamo con la Germania una consonanza totale su moltissime materie europee: politica estera, migrazione e altro. E’ vero che abbiamo opinioni diverse sulla politica economica. Se qualcuno descrive questo come una guerra italo-tedesca, non posso farci nulla».
Però non avevamo mai rimproverato pubblicamente a Berlino un atteggiamento egemonico.
«Certo non è di poco conto la distinzione sull’economia, sul peso da dare alle regole di bilancio rispetto agli investimenti, all’unione bancaria, eccetera, poiché è evidente che il passaggio è molto delicato. Per l’Europa, che finalmente è uscita dalla fase più acuta della crisi, è cruciale decidere se incoraggiare i segnali di ripresa o continuare a tenere il freno tirato. Se la discussione di queste settimane fra noi e la Germania è più aperta, è perché c’è in ballo qualcosa di molto importante».
Esiste a suo avviso una vocazione egemonica della Germania?
«E’ negata da tutti gli esponenti politici tedeschi di qualche rilievo. Penso comunque che il vecchio assunto della Germania europea e non dell’Europa tedesca come vero interesse della Germania sia sempre valido. Poi è chiaro che esiste un vantaggio competitivo nel loro surplus, che i tedeschi intendono sfruttare chiedendo un po’ di flessibilità al contrario sulle regole. Loro non si scandalizzano a farlo, non devono scandalizzarsi se lo facciamo noi».
I fatti di Colonia hanno cambiato alcuni dati fondamentali del dibattito sull’immigrazione. Anche la cancelliera Merkel ha aggiustato in senso restrittivo la sua politica di apertura. Qual è la nostra posizione alla luce di questi nuovi sviluppi?
«Non c’è dubbio che dobbiamo combinare accoglienza e identità. E nella nostra continua sottolineatura della dimensione culturale del contrasto al terrorismo, c’è anche il discorso sulla difesa dei nostri valori e della nostra identità, su cui dobbiamo investire. Non c’è un multiculturalismo facile nell’Europa di oggi. L’Italia rivendica continuità di atteggiamento, fa la sua parte, investe molte risorse nel soccorso e nell’accoglienza, sollecita un’iniziativa comune europea sull’immigrazione, a partire dalla modifica delle regole di Dublino e dal diritto d’asilo comune. Il rischio odierno è che si sottovaluti l’importanza e l’investimento necessario per questa politica, tornando a scaricare gli oneri prima sui Paesi vicini e infine sui Paesi di primo arrivo, come la Grecia. Sappiamo bene che se Atene deve da sola accogliere o rimpatriare 800 mila profughi, questo non accadrà. Il pericolo è che a primavera, con la ripresa dei flussi, risorgano le frontiere».
Ma è d’accordo, come avverte Juncker, che se salta Schengen salta l’Europa?
«Non conosco un mercato unico che non comprenda anche la libertà di circolazione delle persone».
Sul diritto d’asilo a che punto siamo?
«Passi avanti ne sono stati fatti pochi. Una politica di rimpatri che, sulla base delle cifre dell’anno scorso, dovrebbe riguardare grosso modo 300 o 400 mila persone richiede una dimensione europea, con una lista condivisa dei Paesi sicuri e degli impegni finanziari comuni. In questo momento non c’è la percezione della necessità di questa dimensione. Alcuni Paesi, come ad esempio Germania, Svezia, Italia, fanno uno sforzo straordinario. Ma il grosso dei 28 Paesi è come se stesse a guardare pur sentendo l’arrivo di una tempesta. Mi auguro che I Paesi più impegnati non facciano marcia indietro e l’Unione riesca a coinvolgere tutti. E’ la materia politica più incandescente del momento, la vera sfida della Ue».
A che punto è il processo diplomatico in Libia?
«Noi continuiamo a scommettere sul fatto che il percorso avviato a dicembre tra Roma, Skhirat e New York vada avanti, pur conoscendone fragilità e incognite. Il gruppo di Paesi che si è riunito in Italia spinge in questa direzione. La decisione dipende dalla determinazione e dal consenso delle forze libiche. Mi auguro che il consiglio presidenziale arrivi a una proposta di governo di unità nazionale nei prossimi giorni e poi si assicuri i due terzi di voti del Parlamento. Dal punto di vista della coalizione, che si incontra a Roma martedì nel formato di dicembre, concordiamo che la nascita di questo governo sarebbe il gancio al quale ancorare la legittimità di tutte le missioni che ci interessano: ripresa del controllo del territorio, lotta al terrorismo, governo dei flussi migratori, ricostruzione economica».
Quanto è forte il rischio che la grave situazione della sicurezza precipiti interventi militari prima della nascita del nuovo governo?
«Non si tratta di sottovalutare la minaccia terroristica, ma di avere la consapevolezza che la si può fronteggiare o con un intervento del tutto esterno, mai da escludere se il processo politico fallisse ma oggi sbagliato. Ovvero seguendo la strada maestra di intervenire su un Paese che lentamente riprende a controllare il proprio territorio e torna a governarsi».
Non c’è il rischio di agire tardi contro Daesh?
«Al momento no. La minaccia è evidente, alcuni attentati sono gravissimi. Ma non dev’essere abbandonato il processo di intesa nazionale facendosi tentare dall’intervento a prescindere dalla volontà dei libici. Non è lo scenario di oggi e spero non ci si arrivi».
Ci sono progressi nel negoziato sulla Siria?
«L’Italia sostiene l’azione dell’inviato dell’Onu, De Mistura, il quale lavora per rendere possibile l’avvio a Ginevra il prossimo 25 gennaio del primo dialogo formale tra il regime e i suoi oppositori., cui dovrebbe corrispondere l’avvio del cessate il fuoco. Siamo consapevoli che arrivarci è tutt’altro che scontato. Ne parlerà lunedì a New York il Consiglio di Sicurezza. C’è un contesto di tensione tra Iran e Arabia Saudita. Ci sono contrasti sulla formazione della delegazione degli oppositori, che De Mistura vorrebbe il più rappresentativa possibile. L’operazione si svolge in uno dei momenti più terribile dell’emergenza umanitaria. Nelle città assediate la gente muore di fame: chi ostacola un possibile cessate il fuoco si assume una responsabilità tremenda».