E’ una tempesta perfetta – dice il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni – al cui centro sono l’Europa e il Mediterraneo. Il voto per il Brexit, il golpe fallito in Turchia, gli attentati jihadisti sono minacce intrecciate. Da un lato il Mediterraneo è crocevia di tensioni globali, sicurezza, terrorismo, crisi regionali. Dall’altro la miccia Brexit rischia di indebolire la risposta europea. Per chi ha la responsabilità della politica estera, il primo imperativo è quello di non cedere al partito della paura: paura dei migranti, del terrorismo, del commercio internazionale. Dobbiamo impedire che esso prevalga, cavalcato da politici irresponsabili. Oggi chi prova a raccogliere voti seminando paure può produrre conseguenze devastanti. Se rinunciamo al libero commercio, se rimaniamo inermi di fronte a un lento disfacimento dell’Unione Europea, se seminiamo odio verso i migranti, ci troveremo presto in un mondo peggiore».
E in che modo dobbiamo reagire?
«Nervi saldi e una bussola chiara: primo non rinunciare all’Europa, secondo lavorare con gli Stati Uniti per coinvolgere la Russia, terzo sconfiggere il terrorismo senza crociate e illusioni militari. Questa è la sfida. Chi cavalca la paura vorrebbe farci dimenticare la tragedia del Novecento europeo o farci credere che si possa fermare la globalizzazione o illudere i cittadini che si possano bloccare in mare i migranti. So bene che la sicurezza è minacciata e che la mondializzazione ha penalizzato le classi medie. Per questo il terreno sul quale lavorano i mestatori della paura purtroppo è fertile. Ma guai a rinunciare alla società aperta, guai a rinchiudersi nella rabbia di un piccolo mondo antico».
In Turchia Erdogan, sostenuto anche dalle opposizioni, ha sconfitto il golpe militare. Ma la sua reazione sembra puntare a una definitiva resa dei conti che travolge un po’ tutti, un nuovo giro di vite in senso autoritario. Cosa può e deve fare l’Unione?
«Siamo stati chiari nel condannare l’avventura militare, ma oggi lo siamo altrettanto nel dire che vendette, epurazioni, violazioni dello Stato di diritto sono inaccettabili. La porta dell’Europa rimane aperta per una Turchia democratica, ma le scelte delle autorità turche saranno decisive perché non si chiuda».
Ma è ancora realistico aspettarsi che sia lo stesso processo negoziale con l’Unione Europea, ripreso nel quadro dell’accordo sui rifugiati, ad aiutare la Turchia a diventare più democratica?
«Abbiamo commesso errori, dieci anni fa non ieri. Chiudere allora la porta ad Ankara non ha aiutato l’evoluzione in senso positivo del Paese e non fu certo l’Italia a farlo. Oggi il messaggio deve essere molto netto: con la stessa chiarezza con cui abbiamo respinto l’intervento militare, dobbiamo respingere ogni involuzione autoritaria».
Non c’è il rischio che per salvare l’intesa sui profughi saremo costretti a fare sconti sul piano dei diritti umani e della democrazia?
«Io penso il contrario e cioè che ogni slittamento in senso anti-democratico avrà conseguenze negative per l’intesa sui rifugiati. Su questo dossier l’Italia ha sempre denunciato una certa miopia europea: ci fu un tempo in cui l’esperimento turco parve a tutti come un modello possibile di islam moderato e democratico, che avrebbe meritato più apertura e incoraggiamento. Mi auguro che la stessa miopia non si applichi ai Balcani: ricordo che oggi si avvia formalmente un negoziato su alcuni capitoli per l’adesione della Serbia».
L’attentato di Nizza, dopo quello di Dacca, giunge in una fase nella quale la coalizione anti-Daesh registra importanti progressi contro lo Stato islamico in Siria e Iraq. Siamo di fronte a una svolta strategica del terrore jihadista?
«Saremmo vittime di una gigantesca illusione se pensassimo che gli attacchi terroristici dipendano dalle sconfìtte di Daesh e che lasciarlo un po’ più tranquillo ci terrebbe al riparo dai rischi. A muovere i lupi solitari o gruppi più o meno spontanei, da Dacca a Nizza, da Parigi a Bruxelles, è il richiamo di Daesh e la sua presunta forza vincente. Dobbiamo sconfiggerli. Possiamo ottenere altri risultati importanti nel 2016, a Mosul, Raqqa e a Sirte. Ma non sarà breve. È giusta l’impostazione italiana: questa partita non si vince solo con l’impegno militare, che ci vede molto presenti, ma richiede un coinvolgimento delle comunità islamiche e dei Paesi islamici e un impegno sul piano sociale e culturale».
Significa sollecitare le comunità islamiche dei nostri Paesi a essere più nette nelle loro scelte e prese di posizione?
«È quello che ho fatto dopo Dacca. Abbiamo avuto qualche risposta positiva. Ne aspetto di ulteriori e di assai più forti».
Lei fra pochi giorni è a Washington per la riunione della coalizione anti-Daesh. Quali sono i prossimi passi?
«Far sì che prosegua l’avanzata su Raqqa, Mosul e in Libia verso Sirte. E contemporaneamente che questa sia tale da non alimentare contrapposizioni settarie, che renderebbero precaria ogni conquista. E’ quindi fondamentale che a Mosul sia coinvolta la comunità sunnita, che Sirte sia un’operazione condotta dai libici, che a liberare Raqqa sia uno schieramento vasto, non solo un’operazione curda o russo-siriana».
I colloqui di Kerry a Mosca con Putin e Lavrov sono stati molto positivi.
«Putin ha accettato l’idea di intensificare la collaborazione militare con gli Stati Uniti contro al-Nusra. In parallelo è importante che si avvii il negoziato sulla transizione politica, sulla base delle proposte di de Mistura».
Cosa direte oggi al nuovo ministro degli Esteri britannico Boris Johnson?
«Sui temi di politica estera ci aspettiamo di continuare la partnership con Londra. Sugli sviluppi del referendum, ho chiesto a Johnson chiarezza. Il punto è evitare che l’uscita del Regno Unito funga da acceleratore di processi di disgregazione. Nessuno può dare per scontata una risposta compatta dei 27 a Brexit. Londra deve decidere se sia nel suo interesse una Ue unita e coesa e quindi offrire chiarezza di tempi e processi, ovvero giocare una carta di divisione. Sarebbe una grave miopia… Ma confido che non sarà questa la loro scelta: scommettere sulle divisioni dell’Europa renderebbe difficile e forse interminabile il negoziato. Ieri ho sentito da Johnson parole rassicuranti».