Guarda già oltre la battaglia finale per Mosul il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. «La sconfitta definitiva di Daesh, il sedicente Califfato, è alla nostra portata», dice. Ma non dobbiamo commettere gli errori del passato, impedire che si compiano vendette, andare oltre la semplice dimensione militare della lotta al terrorismo».
Ministro, quanto ci vorrà per riprendere Mosul?
«La parabola di Daesh, cominciata nell’estate 2014, può chiudersi nei prossimi mesi. A certe condizioni».
Anche in Siria? E a quali condizioni?
«È possibile che tra qualche settimana o mese all’ordine del giorno vi sia anche la liberazione di Raqqa. Con due avvertenze. La prima è che la sconfitta di Daesh dipende dal modo in cui la campagna sarà condotta nelle prossime settimane. La seconda, che la fine di Daesh sarà una sconfitta storica per i terrorismo, ma non sarà la fine del terrorismo fondamentalista di matrice islamica».
Tra curdi, sunniti e sciiti esploderanno nuovi conflitti?
«La premessa è che la fine di Daesh è possibile se non si faranno gli errori ripetutamente commessi negli ultimi due anni. Ne ho parlato venerdì con l’inviato del presidente Obama in Iraq, Brett McGurk: questa non è una guerra lampo finalizzata ad alzare una bandiera nella piazza di Mosul e magari domani di Raqqa. È piuttosto una campagna di liberazione e stabilizzazione che durerà molti mesi, che richiede grande equilibrio politico e diplomatico, che incontrerà diversi ostacoli. Non solo da parte dei circa 4 mila terroristi oggi a Mosul, ma anche ostacoli politici».
Quali errori vanno evitati?
«A Falluja e Ramadi abbiamo subito decisioni ispirate da logiche settarie che escludevano la componente sunnita dal governo delle città liberate, o addirittura che lasciavano il campo a vendette e violenze diffuse. Risultato: Ramadi è stata ripresa da Daesh e soltanto parecchi mesi dopo si è potuto liberarla. Il governo iracheno ha ora chiarito che le forze regolari avranno il ruolo guida e non basta vincere militarmente: occorre una governance inclusiva. Non vanno autorizzate vendette ma va rassicurata la popolazione sunnita. Grazie a questa politica, sono rientrati un milione di sunniti scappati da Tikrit, Ramadi e Falluja».
I sunniti non vanno esclusi dal governo?
«Non solo, I sunniti devono essere protagonisti nella regione di Ninive e nell’Anbar. Il premier iracheno al-Abadi ha rivolto messaggi alla comunità sunnita per contenere le conseguenze umanitarie della battaglia di Mosul, dove gli sfollati sono già 19 mila. Dopo la fuga dalla guerra e dalle atroci violenze di Daesh, bisogna evitare la fuga da Mosul per la preoccupazione di violenze settarie anti-sunnite».
L’Iraq sarà spartito?
«Una volta ripreso il controllo di gran parte del territorio, le autorità irachene dovranno considerare che tradizioni, culture e religioni, in un Paese attraversato da oltre un quarto di secolo di guerre, meritano il riconoscimento di forme d’autonomia. Naturalmente senza mettere in discussione la realtà unitaria dell’Iraq».
Chi dovrebbe evitare tensioni?
«Mi riferisco al ruolo di Paesi importanti come la Turchia, alle forze curde e alle milizie sciite. Le condizioni per arrivare a una vittoria militarmente alla nostra portata sono legate all’impostazione politico-diplomatica non da guerra lampo, ma da campagna di medio periodo che associ la liberazione alla stabilizzazione. L’Italia qui ha un ruolo. Con 1300 militari siamo secondi solo agli Usa. Non combattiamo sul terreno, ma abbiamo addestrato 14.600 militari iracheni e curdi. E guidiamo la stabilizzazione della sicurezza con i carabinieri nelle zone liberate dell’Anbar».
C’è il rischio di una nuova guerra fredda con la Russia spostata anche in Medio Oriente?
«Tutti abbiamo presenti i rischi generati dalle tensioni con la Russia, ma nessuno dovrebbe associare queste tensioni a un’epoca del tutto diversa come la guerra fredda. L’Italia si adopera per una posizione chiara nei confronti della Russia, tuttavia senza mai rinunciare al dialogo».
La Turchia tenterà di creare uno Stato cuscinetto in Iraq?
«La Turchia ha un ruolo cruciale, ma la sua presenza deve essere coordinata con le strategie della coalizione a guida americana. Ci sono alcune realtà, penso alla cittadina di Tal Afar, attorno alle quali la coalizione è impegnata a evitare tensioni tra milizie popolari sciite e Turchia. Ancora più delicato sarà l’equilibrio della coalizione in vista della liberazione di Raqqa».
I jihadisti potrebbero fuggire verso l’Europa?
«Il buonsenso ci dice che chiudere con la macabra vicenda di Daesh sarà una grande svolta. Le radici del fondamentalismo terrorista non verranno per questo cancellate, la minaccia potrà riproporsi in altre forme. Ma guai a sottovalutare la forza di attrazione simbolica, economica e militare di un gruppo terrorista che si racconta come uno Stato. La sua fine ridurrà la minaccia terroristica ovunque nel mondo, sia pure senza eliminarla».
Cambierà qualcosa a partire dal 9 novembre con il voto negli Usa?
«Obama è stato il presidente che ha sconfitto Al Qaeda e il suo capo Bin Laden, e negli ultimi mesi ha posto le basi per sconfiggere anche Daesh: ci vorrà ancora molto tempo, non è questione di ore o di giorni ma di mesi, tuttavia sono certo che l’amministrazione americana proseguirà questa campagna di liberazione e stabilizzazione».
Meglio Trump o la Clinton?
«Tutti sanno a chi vanno le preferenze mie e del Pd. Ma la prosecuzione della campagna per liberare il mondo dalla minaccia di Daesh è fuori discussione, quale che sia l’esito del voto».