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Gentiloni: “Migranti e crescita. Un dialogo positivo per disinnescare le crisi” (La Stampa)

La seconda edizione di Med, presentata a Roma dal ministro degli esteri Paolo Gentiloni, spalanca la finestra su un Mediterraneo quanto mai agitato su cui si addensano nubi cupe. Le sfide sono tante, il tempo è poco: l’imperativo dei leader mondiali è il dialogo.

Iniziamo da Putin. Su «La Stampa» ha invitato l’Europa a fidarsi di lui. Possiamo farlo con quanto sta accadendo ad Aleppo?

«L’Italia non ha mai coltivato nostalgie della Guerra Fredda. Coi nostri alleati abbiamo sempre sostenuto la necessità di un dialogo con Mosca e di una piena collaborazione contro il terrorismo. Per ricostruire la fiducia, però, non basta il dialogo. Ci aspettiamo passi avanti concreti sugli accordi di Minsk e l’impegno russo per fermare le bombe di Assad ad Aleppo Est».

Da Putin a Castro. Checché se ne pensi la sua morte chiude il ‘900. Che valutazione dà di Fidel?

«È un leader che per mezzo secolo ha fatto la storia del popolo cubano, un popolo a cui ci siamo sempre sentiti vicini. Ma il ‘900 è alle spalle e con lui i miti rivoluzionari latino-americani. Tenerli in vita per forza a Cuba o in Venezuela non giova a nessuno. Piuttosto si proceda sulla via del disgelo tra Cuba e Usa eliminando il blocco e ristabilendo normali relazioni».

Il Mediterraneo. Cosa si aspetta da questa edizione di Med?

«Mi aspetto un messaggio positivo. Il Mediterraneo è in un contesto di disordine straordinario, il tema fondamentale è come ricostruirvi la trama di un ordine possibile. C’è l’ attualità, Trump, la possibile sconfitta dell’Isis nel 2017 e le sue conseguenze, le migrazioni, le tante crisi locali. Ma c’è soprattutto l’urgenza di ricreare le basi minime per ridurre le tensioni, aumentare la fiducia, sviluppare di agende commerciali con misure di confidence building».

A che punto siamo in Libia?

«Siamo a un anno dalla conferenza di Roma, quella che lanciò l’intesa internazionale da cui è seguito l’insediamento di Serraj. Oggi in Libia c’è un governo riconosciuto dall’Onu. La stabilizzazione va a ritmo estremamente lento ma bisogna ammettere che non esistono alternative. Avallare qualsiasi divisione della Libia sarebbe inaccettabile. Sull’immigrazione si fanno i primi passi, a partire dall’addestramento della guardia costiera e dalla sala operativa comune. Non mi aspetto risultati oggi, anzi. Ma intanto, lontano dai riflettori, ci stiamo adoperando per un ponte tra il governo e il generale Haftar».

In Siria, invece, siamo al palo?

«In Libia, sebbene ciascun Paese lavori per sé, c’è almeno una formale intesa internazionale promossa da Usa e Italia. In Siria è il contrario. Spero che l’appuntamento di Roma sia un’occasione di scambio. Purtroppo in Siria siamo a zero e il regime di Damasco sta chiaramente cercando di usare i due mesi di transizione che ci separano dall’insediamento di Trump per mettere il mondo di fronte al fatto compiuto di una vittoria militare ad Aleppo Est. Mi auguro che la Russia scoraggi questa tentazione di Assad, perché è chiaro che non c’è una soluzione militare in Siria».

Molti contestano l’accordo con la Turchia perché, dicono, ha appaltato i confini europei a un despota. Cosa ne pensa oggi che Erdogan minaccia l’Ue con una nuova ondata di profughi?

«Non mi pento dell’accordo di marzo. È vero che l’Ue ha messo sul tavolo 3 miliardi più altri eventuali 8, ma sono risorse che non pagano i dipendenti pubblici turchi, pagano i campi profughi e l’accoglienza. L’Unhcr all’inizio era molto critico, oggi meno. L’accordo inoltre funziona, siamo passati dai 2000 passaggi al giorno nell’Egeo a poche decine. Il punto non è dunque l’accordo, ma quale strada stia prendendo Erdogan. La Turchia è un Paese sotto attacco, ha subito un tentativo di golpe, vive la minaccia quotidiana del terrorismo. Ma ciò non giustifica alcune reazioni che per noi sono inaccettabili, a partire dall’abolizione dell’immunità parlamentare seguita dall’arresto dei leader del terzo partito, l’Hdp. Quanto alle nuove minacce all’Ue, Erdogan può decidere quel che vuole. Se metterà in pratica quanto minacciato se ne assumerà le responsabilità. E noi ne prenderemo atto. L’interesse comune è tenere la porta aperta o almeno socchiusa».

È vero che si cerca un accordo con la Tunisia sul modello turco?

«Con la Tunisia abbiamo già un buon accordo sul controllo dei flussi di migranti e i rimpatri condivisi. Ma non c’entra nulla con la Turchia, Paese che ospita milioni di rifugiati e dispone di un forte controllo del territorio e delle frontiere. Piuttosto se c’è un Paese chiave per ridurre i flussi nel Mediterraneo centrale, è il Niger. E sul Niger l’Italia sta lavorando con Parigi e Berlino per un pacchetto che spero sia varato nelle prossime settimane e che può avere in dotazione diverse centinaia di milioni di euro messi dai tre Paesi coinvolti e dall’Ue. Questo pacchetto è l’unico che nel breve termine può ridurre sensibilmente i flussi perché il Niger è l’anticamera della Libia e, essendo un Paese di transito senza migranti propri e senza rimesse, è pronto a collaborare».

Le quote dei migranti in Europa sono in alto mare. L’Italia ha ottenuto qualcosa alzando la voce?

«Ha ottenuto che non si accetta più l’idea di un’ Europa severa sulle virgole dei bilanci e flessibile sugli impegni sottoscritti sulla redistribuzione dei migranti. In teoria l’Ue c’è, ma i risultati pratici non si vedono ancora: misureremo la reale disponibilità della Ue anche dalla rapidità e dalla rilevanza degli impegni economici sul migration compact. Non può passare l’idea che le migrazioni siano un problema italiano. Dopo l’accordo con la Turchia si è diffuso un certo rilassamento in Ue, mi auguro che si cambi atteggiamento per una nuova consapevolezza e non perché magari si riapre la rotta dell’Egeo».

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