Un’Europa più forte, anche senza modificare i trattati. Con cinque proposte, che il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung ha rilanciato in prima pagina, Enzo Moavero Milanesi indica all’Italia una «via europeista» in vista del 26 maggio. «Cinque proposte concrete per una Unione europea più efficace — elenca il ministro degli Esteri — per dare ai gruppi parlamentari un potere di iniziativa legislativa, varare una vera e completa politica unitaria per governare le migrazioni…».
Intanto il presidente Mattarella va da Macron per rinsaldare i valori comuni e Salvini vola a Budapest per ammirare il muro anti—migranti di Orban. Quale Europa le piace di più?
«Sui migranti, quello che fa più impressione è l’incapacità dei vari governi europei di trovare un accordo, piuttosto che arroccarsi su posizioni differenti riguardo alle vie da intraprendere. L’Europa si è troppo divisa e non riesce a sviluppare una vera politica comune per governare i flussi».
L’Ungheria può diventare un modello per l’Italia?
«La sua chiusura finisce per diventare uno dei modelli, per una serie di Paesi che hanno maggiore difficoltà ad assorbire i migranti. Nel non riuscire ad affrontare bene la questione, per le profonde divisioni fra i governi, l’Europa mostra un grave punto debole».
Con Salvini premier vedremmo anche noi muri e fili spinati per fermare i migranti «economici»?
«In assenza di una politica europea, ogni Stato, lasciato solo, affronta il problema nel modo reclamato dalla propria opinione pubblica. Che quello ungherese possa diventare un modello per l’Italia, dipenderà dal voto degli italiani e dalla capacità della Ue di trovare una sintesi».
È deluso dalla risposta della Commissione Ue alla sua lettera sul rischio di una nuova ondata di sbarchi?
«Ho inviato la lettera dopo le dichiarazioni del presidente libico al-Serraj, che ha parlato di 800 mila migranti pronti a partire. Un numero eccessivo, ma anche una cifra enormemente inferiore può configurare un’emergenza. Ho scritto alla Ue per dire di prepararsi a un’eventuale emergenza e mi hanno risposto indicando strumenti ordinari. Ne riparleremo, forse non ci siamo compresi».
L’Italia non è pronta?
«Non dico questo, dico che i trattati europei prevedono anche appositi strumenti temporanei straordinari per non lasciare soli gli Stati di primo impatto. Se l’Europa non si attiva, costringe ogni Paese a muoversi alla sua maniera e la materia diventa sempre più divisiva».
È realistica l’ipotesi di un’alleanza tra sovranisti e popolari europei?
«Difficile, ma è una dinamica in astratto possibile. Viene esclusa dai protagonisti, ma potrebbe accadere. Sono le prime elezioni europee veramente politiche. La geometria semplice dice che popolari e socialisti non ce la faranno più a governare da soli e, dopo il voto, dovranno allearsi con liberali e verdi».
E se l’alleanza fallisse?
«Allora, forse, i numeri parlamentari potrebbero portare a formare una coalizione di stampo più conservatore, che veda protagonisti i popolari con l’eventuale supporto di partiti che ora ascriviamo al campo avverso, perché li qualifichiamo come sovranisti, nozione peraltro vaga».
Orbán vuole portare Salvini nel Ppe, ma Merkel stoppa alleanze con le destre illiberali e antisemite.
«Nessuno dei partiti che avranno seggi nega l’esistenza dell’Unione, il punto vero è che declinano in modo diverso l’integrazione e le riforme necessarie. C’è chi vede una prospettiva federale e chi indica una prospettiva in cui molta della sovranità resta o ritorna agli Stati».
Il premier ungherese è accusato di guidare una «democrazia illiberale» e il polacco Kaczynsky, altro alleato della Lega, è sotto procedura di infrazione per aver violato lo stato di diritto. Molti ci vedono una distanza abissale sul piano culturale, etico e democratico. E lei?
«E’ una lettura semplicistica. Trovo manicheo qualificare brutalmente come illiberali governi che, proprio obbedendo alla Ue, hanno adottato misure che li riportano in linea con gli altri Paesi. Il punto vero è che un confronto serrato è inevitabile, con un numero così alto di Stati membri. Bisogna trovare la sintesi e io penso sia possibile».
In Libia è guerra. L’Italia ha riconosciuto Sarraj, ma lei esorta a parlare con Ilaftar. Come risponde alle accuse di ambiguità della sua politica estera?
«Il governo di al—Serraj è riconosciuto da noi e dall’intera comunità internazionale, ma ci sono altri attori importanti nello scenario libico. Il dialogo inclusivo non è ambiguità, è una strada obbligata per un Paese che vuole svolgere un ruolo conciliatore in un conflitto che vede di nuovo aspri scontri armati».
E in Venezuela, dove Salvini e Di Maio sono agli antipodi, non è tempo di schierarsi tra Maduro e Guaidó?
«Anche sul Venezuela non siamo equidistanti o neutrali. Non riconosciamo la legittimità delle ultime elezioni di Maduro, invece riconosciamo l’Assemblea nazionale e il suo presidente Guaidó. Ma il modo per favorire nuove elezioni non è schierarsi per presidenti alternativi. Non è eleggendo l’antipapa che risolvi i problemi di un potenziale scisma».
Si saprà mai la verità sull’uccisione di Giulio Regeni?
«Più passa il tempo senza che si arrivi alla verità, più siamo amareggiati e preoccupati. Ma il pressing per avere vera giustizia non diminuirà».
Il governo cadrà sul sottosegretario Siri?
«Di fronte a vicende politiche sensibili e delicate, tutto è sempre possibile. Molto dipende da come il presidente Conte presenterà la questione al Consiglio dei Ministri».