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Dettaglio intervento

(fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)



Signor Presidente,
Onorevoli Deputati e Senatori,
Signora Leymah Gbowee
Signore e Signori,


ho accolto con piacere l’invito a intervenire a questo incontro perché i temi toccati riflettono una delle direttrici prioritarie della diplomazia italiana. L’Italia ha ispirato le linee fondamentali della sua politica estera al valore della riconciliazione e della dimensione umana della pace. Abbiamo contribuito a rifondare l’Europa, mettendo da parte rancori e risentimenti e puntando sull’integrazione tra popoli che per anni si erano fatti la guerra.


Alla fine della prima guerra mondiale a prevalere erano state le sanzioni e le rivendicazioni. Sappiamo quali furono le conseguenze. Dopo la seconda guerra mondiale, grazie alla lungimirante visione di De Gasperi, Adenauer e Schuman, gli europei si affidarono alla forza della riconciliazione e del perdono. Tale scelta non ha significato dimenticare gli orrori del passato. Il riconoscimento dei crimini e la consapevolezza delle atrocità commesse fu invece il presupposto per il loro definitivo superamento.


Sono tante le immagini simboliche della rappacificazione del continente europeo. Tocca tutti noi quella di Mitterand e Kolh, stretti per mano in occasione del settantesimo anniversario di una delle più cruente battaglie della storia, quella di Verdun.


Il sostegno alla riconciliazione è anche uno dei capisaldi della politica estera italiana. Nelle 28 missioni internazionali di pace alle quali partecipa in 21 Paesi, dall’Afghanistan ai Balcani fino al Libano, l’Italia non solo assicura una cornice di sicurezza, ma opera anche per favorire i processi di stabilizzazione, creando le condizioni per una pacifica convivenza nella fase post-conflitto.


Grazie alla capacità di ascolto della popolazione locale, dote tanto rara quanto apertamente riconosciuta alle nostre missioni, non solo contribuiamo a comporre fratture etniche e sociali, ma anche ad affermare i diritti fondamentali e a tutelare le categorie più deboli, come le minoranze e le donne. Questi sono i presupposti perché la pace si estenda oltre la tregua imposta con l’interposizione militare. Nei miei incontri della scorsa settimana a Beirut, ho registrato al più alto livello il forte apprezzamento per tale approccio, che contraddistingue la partecipazione del nostro contingente in UNIFIL.


Una regione nella quale abbiamo particolarmente investito in favore della riconciliazione è stata quella dei Balcani occidentali. Abbiamo lavorato per sostituire rapporti improntati a odio e diffidenza con relazioni in cui la comprensione reciproca si traducesse in condivisione di progetti e solidarietà. Un approccio plasticamente raffigurato dal contributo alla ricostruzione del ponte di Mostar, simbolo di riconciliazione tra le etnie della città.


Il Concerto dell’Amicizia, tenutosi nel 2010 a Trieste con la partecipazione del Presidente Napolitano e dei Presidenti di Slovenia e Croazia, ha segnato il rifiuto dei tre paesi di restare ostaggio dei traumi del passato. Lo “spirito di Trieste”, come ha osservato il Presidente Napolitano, è “lo spirito nel quale noi vogliamo che si sviluppino le nostre relazioni”.


La riconciliazione regionale serve inoltre a imprimere la necessaria spinta propulsiva al processo di integrazione europea dei Balcani. Abbiamo accolto con favore la condanna da parte del Parlamento serbo del massacro di Srebrenica e la partecipazione del Presidente Tadic alla cerimonia di commemorazione a Srebrenica. Ci aspettiamo ora ulteriori progressi nel dialogo fra Belgrado e Pristina, facilitato dall’Unione Europea e stimolato dalla nostra continua azione bilaterale.


Sono molti i Paesi africani in cui l’Italia ha svolto e continua a svolgere un ruolo importante a sostegno della riconciliazione. Il Governo italiano contribuì alla firma, avvenuta venti anni fa alla Farnesina, dell’Accordo Generale di pace tra le parti in conflitto in Mozambico. Ora il Mozambico, come ho anche constatato nella mia visita a Maputo, è una delle realtà più dinamiche dell’economia mondiale. Il nostro Paese ha favorito il ripristino dell’assetto democratico anche in Niger. Nell’ottobre del 2010, la giunta militare, il Governo, il Parlamento di transizione, le forze politiche e i rappresentanti della società civile nigerini firmarono a Roma un patto nazionale per la transizione democratica.


Siamo impegnati per la riconciliazione anche in Somalia. Ieri abbiamo ospitato a Roma la riunione del Contact Group, l’ultimo appuntamento internazionale prima della fine della transizione prevista per il 20 agosto. Negli anni scorsi, abbiamo finanziato un progetto di riconciliazione, che favorì la nomina di autorità indipendenti e legittime in regioni e distretti della Somalia. Il progetto è stato riconosciuto come “success story” dai somali e dagli altri attori chiave della regione. Alla riunione di ieri abbiamo chiesto di tener conto di tale positivo precedente negli impegni della comunità internazionale in favore della stabilizzazione somala.


La testimonianza della Signora Leymah Gbowee e la filosofia dell’Ara Pacis Initiative riflettono dunque una visione condivisa dal Governo italiano. Anche grazie al lavoro diplomatico del nostro Paese, questa visione si è progressivamente diffusa nel sistema delle Nazioni Unite. Lo testimonia la risoluzione 61/17 del gennaio 2007 con cui l’Assemblea Generale dichiarò il 2009 Anno internazionale della Riconciliazione.


Le Nazioni Unite hanno spesso avuto un ruolo attivo anche nell’istituzione di Commissioni per la verità e riconciliazione in Paesi in cui autocratici, talvolta brutali, regimi erano stati sostituiti da governi democratici. Penso ad alcune transizioni democratiche verificatesi fin dagli ottanta in Sud America, ma anche ai cambi di regime in vari Paesi africani. In molti di questi casi le esigenze di verità e giustizia hanno facilitato i processi di riconciliazione e generato una sorta di catarsi collettiva.


Anche nei Paesi della primavera araba oggi la sfida è conciliare l’esigenza di verità e giustizia – cioè l’accountability per le violazioni dei diritti commessi dai regimi autocratici e la riabilitazione delle vittime della repressione – con quella di riconciliazione nazionale e di inclusione del più ampio numero di cittadini nel nuovo ordine democratico. Sono convinto, come ha saggiamente detto il Presidente della Tunisia Marzouki, che “le ferite del passato vanno curate e guarite”. La Tunisia è tra i Paesi che hanno iniziato ad affrontare questo tema, anche con la creazione di un Ministero per i diritti umani e la giustizia transazionale.


L’obiettivo di tali meccanismi di “transitional justice” è porre fine alla cultura di impunità e contribuire a radicare quella della legalità e dello Stato di diritto nel nuovo ordinamento democratico. Ma non si deve dimenticare chi soffre e chi ha sofferto perché, come ha sottolineato Aung San Suu Kyi nel discorso di accettazione del Premio Nobel, “essere scordati è come morire in parte”. Le vittime della repressione hanno il diritto di perdonare, ma anche di ricordare e di trasmettere la loro esperienza. La società dovrebbe favorire tali riflessioni per evitare di ricadere in futuro negli abissi della disumanità.


L’idea dell’Ara Pacis di creare un foro per far interagire le realtà non governative con attori istituzionali potrebbe allora costituire quel tassello mancante nella comunità internazionale per dare maggiore ascolto e attenzione a quanti hanno subito umiliazioni e atti brutali in conflitti o da regimi oppressivi. Il Ministero degli Esteri intende sostenere l’iniziativa, come testimonia il Seminario con i promotori del progetto Areopagus, tenutosi ieri alla Farnesina. Per l’anno prossimo stiamo programmando un contributo finanziario al progetto.


Per secoli l’approccio alla pace è stato fondato sulla sentenza latina: si vis pacem, para bellum. Il nostro motto deve diventare: si vis pacem, para pacem. Per prevenire la rovina della guerra è necessario preparare le condizioni per la pace. L’Italia continuerà a lavorare intensamente perché questo nuovo approccio si traduca nel rispetto dei diritti fondamentali e dei valori etici e civili della convivenza, nell’apertura al dialogo politico, interreligioso e interculturale, nella preminenza del negoziato sull’atteggiamento antagonista. Questi sono i presupposti per una pace stabile e una riconciliazione duratura. Questo è lo spirito che anima la nostra politica estera.