In Afghanistan non esistono solo i talebani e le forze che si riconoscono nel governo di Hamid Karzai. In Afghanistan esiste una “terza forza” che va sostenuta con atti concreti: mi riferisco alle associazioni, alle ong della società civile afghana. Per questo il nostro convinto sostegno al governo Karzai va sempre più vincolato a due caveat fondamentali: la lotta alla corruzione e il rispetto dei diritti umani, in particolare quelli delle donne». A parlare è il numero due della Farnesina, Staffan de Mistura, già Rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Afghanistan.
I talebani hanno avviato In grande stile la «campagna di primavera». Come leggere gli attacchi del giorni scorsi a Kabul e In altre località dei Paese, e soprattutto, come deve attrezzarsi la comunità Internazionale?
«Punto primo: è irrinunciabile, e sarà sempre più chiara, la decisione sia del governo afghano che della comunità internazionale impegnata in Afghanistan, di trasferire le responsabilità della sicurezza da quest’ultima alle autorità afghane. Punto due: in questo frangente, la comunità internazionale è chiamata a dimostrare che gli afghani non saranno abbandonati per la terza volta, ma al contrario, saranno sostenuti sia in termini finanziari che di sostegno civile. Ma a due condizioni, sulla base di due caveat irrinunciabili».
Quali?
«Il primo è quello che gli afghani, a cominciare dal governo e dalle istituzioni rappresentative, dimostrino con i fatti, con misure concrete, di voler combattere la corruzione, ad ogni livello essa si annidi. Il secondo caveat non è meno importante e impegnativo del primo: dimostrino, anche qui con i fatti, con misure concrete, di voler difendere i diritti umani e, soprattutto, quelli delle donne».
Vorrei tornate sul «primo giorno» dell’offensiva di primavera, in particolare alla serie di attacchi sferrati dal talebani nel cuore di Kabul, la capitale.
«Gli attacchi di Kabul si prestano a molteplici letture e acquistano significati diversi a seconda del punto di osservazione dei vari soggetti coinvolti. Andiamo con ordine: quegli attacchi esemplificano il tentativo, che vedremo ricorrente sia da parte dei talebani che delle forze Nato, di marcare la loro posizione proprio nel momento in cui si inizia a negoziare. Si chiama hot negotiation (negoziato caldo), ed è una costante, non solo sullo scenario afghano, nella fase cruciale in cui si inizia a negoziare seriamente. C’è poi da aggiungere che quegli attacchi si prestano a una doppia lettura ognuna delle quali contiene in sé un elemento di verità».
Qual è questa doppia lettura?
«Visti dai talebani, questi attacchi servono a indicare alla popolazione afghana come alla comunità internazionale, che loro possono arrivare a colpire dove vogliono, che hanno il controllo del territorio. Da parte della comunità internazionale impegnata sul campo e delle autorità afghane c’è la dimostrazione che nonostante il tentativo dei talebani, quegli attacchi possono essere faticosamente ma efficacemente gestiti, controllati, contenuti dalle forze di sicurezza afghane. Questa duplice lettura verrà riproposta in altre situazioni che si determineranno in futuro».
Di fronte alla recrudescenza delle operazioni militari, agli attacchi dei talebani, e al triste aggiornamento del contributo di sangue pagato in Afghanistan, in Italia, ma non solo, si ripropone il dibattito tra «restare, nonostante tutto» e «uscire dal pantano afghano». Sono queste le due opzioni su cui ragionare?
«Direi proprio di no. Una terza via esiste e si chiama Accordo di Lisbona. Quell’accordo – e ciò verrà ulteriormente chiarito nel prossimo vertice di Chicago della Nato – delinea date precise e uno scadenzario chiaro. L’unica variazione determinabile, senza cambiare il calendario del ritiro militare, è quella di ridurre gradualmente la presenza militare e rafforzare la partecipazione all’aiuto allo sviluppo dell’Afghanistan, ma ricordando i due caveat vincolanti: lotta alla corruzione e rispetto dei diritti umani, soprattutto i diritti delle donne».
In questi anni, soprattutto in frangenti particolarmente drammatici, si racconta di Afghanistan come se nel Paese esistessero solo due campi: quello dei talebani, gli «insorgenti», e quello di quanti si riconoscono nel governo Kart. Ma à proprio cosi o nella realtà esiste una terza forza?
«Questa terza forza esiste, è viva, e, per molti versi, rappresenta il vero investimento per il futuro dell’Afghanistan: è la società civile, con le sue associazioni, le sue ong. Esiste, questa terza forza, ed è proprio per questo occorre insistere sul rispetto dei due caveat a cui ho fatto riferimento in precedenza. Proprio perché questa società civile organizzata esiste, chiede sostegno e riconoscimento, che dobbiamo sempre più collegare gli sforzi della comunità internazionale, e dell’Italia in essa, alle condizioni che qualificano un Afghanistan democratico, plurale, che rispetta i diritti umani e s’impegna nel combattere la corruzione. Dobbiamo agire in questa direzione anche per dare una risposta alla domanda fondamentale che tutti dobbiamo porci, una domanda e una risposta che racchiudono il senso di dodici anni d’impegno in Afghanistan».
Quale domanda e quale risposta?
«Eravamo entrati in Afghanistan tutti assieme, dopo 1’11 settembre perché, come si ripetè più volte in quei tragici giorni, “siamo tutti newyorkesi”. Ora Osama bin Laden non c’è più, Al Qaeda è quasi più presente altrove (Yemen, Somalia) che in Afghanistan. Quindi il vero punto di riferimento sarà se – quando e come lo scadenzario prevede che ce ne andremo – le donne afghane e i diritti umani saranno più tutelati di quando eravamo entrati. Questa è davvero la prova del nove, il salto di qualità a cui vincolare i nostri contributi futuri».