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Scala la montagna e scoprirai che era bassa

Anche se non direttamente centrale alla “politica africana” dell’Italia, più orientata verso il Corno d’Africa (Somalia ed Etiopia in particolare) e ai Paesi della fascia mediterranea, il Congo ha da sempre costituito un elemento di notevolissima rilevanza: sia nei rapporti bilaterali tra Roma e Kinshasa, sia nelle iniziative di stabilizzazione democratica, di sviluppo e pacificazione che l’Italia ha incoraggiato attraverso l’Unione Europea e il sistema delle Nazioni Unite. L’institution building così faticosamente lanciato da Hammarskjóld ha contribuito a un percorso — sia pur non lineare e costellato di confronti sanguinosi, in un’alternanza di successi e arretramenti — positivo per la stabilizzazione territoriale e istituzionale del gigante africano. Se si osserva la sua storia nel mezzo secolo trascorso dalla scomparsa di Hammarskjóld, il Congo ha continuato a essere un Paese a elevatissima criticità, per se stesso e per i suoi vicini. Dag aveva compreso perfettamente che le Nazioni Unite potevano fare un’enorme differenza. E non è certamente casuale il fatto che il Paese per il quale Hammarskjóld ha “inventato” il Peacekeeping sia ora destinatario della più grande operazione di pace mai autorizzata dal Consiglio di sicurezza, la Monusco, che opera nella Repubblica Democratica del Congo dal 2010 con un contingente di diciannovemila uomini.


L’azione svolta da Hammarskjóld fu, sotto questo profilo, non solo premonitrice, ma fortemente consapevole che la «Questione Congo» costituiva un test ineludibile per quell’ordine internazionale che le Nazioni Unite si proponevano di assicurare.


In un periodo — inizio anni Sessanta — in cui la «guerra fredda» era all’apice della tensione, con altre gravi crisi politiche in corso (Berlino, Cuba, Vietnam e Laos), il fronte Occidentale non poteva permettersi arretramenti. Nella difficile fase che seguì la morte del primo ministro Lumumba, Dag Hammarskjóld si adoperò affinché il Consiglio di sicurezza autorizzasse l’uso della forza, investendo così tutto il proprio prestigio con l’obiettivo di preservare l’integrità territoriale del Congo: operazione estremamente complessa, che gli costò la vita e per certi versi rimasta ancora incompiuta.


L’opera di Hammarskjóld riguarda anche la democratizzazione dell’Onu. Molti anni dopo l’era Hammarskjóld, alla vigilia della prima elezione di Ban kiMoon, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si cimentava ancora una volta nella razionalizzazione dei criteri che avrebbero dovuto guidare la scelta del nuovo segretario generale. Si trattava di uno sforzo ulteriore da parte dell’Assemblea generale di ritagliarsi uno spazio meno formale e più politico, per una decisione cruciale per la vita dell’organizzazione in un clima non particolarmente disteso per i segni lasciati dall’operazione in Iraq, i crescenti rischi della proliferazione nucleare, le irrisolte questioni dello sviluppo, nella difficoltà di conseguire gli obiettivi del millennio e la molteplicità di «nuove sfide» (terrorismo, clima, povertà) che avevano fatto maturare nella membership onusiana la convinzione che il nuovo segretario generale dovesse essere selezionato attraverso una procedura aperta, trasparente e democratica. Sempre più diffuso era il convincimento che si dovesse cioè trovare il modo di rompere il monopolio, durato mezzo secolo, dei cinque membri Permanenti (i cosiddetti P5: Usa, Urss, Cina, Gran Bretagna, Francia) nell’orientare tale nomina sulla base di contrappesi e interessi politicamente bilanciati esclusivamente tra loro. In effetti, sotto questo profilo, non molto era mutato nel 2006 rispetto al io aprile 1953, giorno dell’elezione di Dag. I cinque Paesi usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale si erano infatti assicurati, con l’articolo 27 dello statuto, che ogni decisione del Consiglio di sicurezza fosse validamente adottata con il voto affermativo di nove membri, inclusi i voti “non contrari” (concurring) dei P5.


Se l’esperienza di Hammarskjóld mostra quanto avesse visto giusto, nella sua ricerca di un diverso equilibrio tra il segretario generale e quello del Consiglio di sicurezza, e soprattutto i P5, la storia successiva delle Nazioni Unite conferma come tale ricerca continui a essere prioritaria per dare efficacia all’insostituibile funzione dell’Onu nell’attuale realtà internazionale. Dal punto di vista della mission, il campo di responsabilità dell’Organizzazione si è esteso esponenzialmente in un mondo più che raddoppiato per popolazione, quasi quadruplicato per numero di Stati sovrani, globalizzato nella sua economia, frammentato per la sicurezza, messo a rischio delle sfide del clima, dell’ambiente, del terrorismo e della radicalizzazione estremista; un mondo nel quale da almeno vent’anni sono maturati protagonisti nuovi.


Sul palcoscenico del mondo le nuove tecnologie hanno sovvertito ogni modulo acquisito nel diffondere l’informazione mentre attori non governativi entrano a pieno titolo nei processi formativi delle politiche estere. Sotto diversi profili la politica estera italiana porta in sé oggettivi riconoscimenti all’eredità personale e politica del secondo segretario generale delle Nazioni Unite. Con grande continuità il nostro Paese ha affermato e sostenuto nell’intero dopoguerra i valori dell’uomo, della pace, del multilateralismo; lo stato di diritto quale patrimonio genetico della cultura giuridica italiana è stato sempre posto a fondamento di tutti i processi di consolidamento istituzionale sostenuti dalle Nazioni Unite ai quali l’Italia ha in molte forme contribuito nell’ultimo mezzo secolo. L’azione instancabile della diplomazia italiana nel proporre una riforma del Consiglio di sicurezza e delle Nazioni Unite che attenui i privilegi di status derivanti da situazioni storiche obsolete e incardini in tutti gli organi societari i principi della democrazia e dell’equità può essere vista come un’ulteriore riconoscimento alla memoria di Hammarskjóld, cinquant’anni dopo la sua scomparsa.


«Mai misurare l’altezza di una montagna fino a che non ne hai raggiunto la cima. Allora capirai quanto fosse bassa»; è forse in queste parole di Dag Hammarskjóld l’eredità più importante che di lui ancora sopravvive nelle Nazioni Unite del xxi secolo. Un invito a superare i limiti intrinsechi di un’organizzazione di 192 stati cui, ancora oggi, a 66 anni dalla sua creazione, continuano a guardare i più deboli della terra come l’unica possibilità di vedersi riconosciuto il diritto stesso a esistere. Una speranza che si è rinnovata il 14 luglio di quest’anno quando il Sud Sudan è divenuto il 193 membro dell’Onu.

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