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Gentiloni: «L’Europa adesso cambi o Schengen è a rischio» (Messaggero)

 

 

ROMA «Sull’immigrazione l’Europa rischia di dare il peggio di sé tra egoismi, decisioni in ordine sparso e polemiche fra Stati membri. Sono preoccupato. Oggi è su questo che l’Europa o ritrova la sua anima o la perde davvero». 

Per il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, occorre condivisione e vanno quindi rivisti i Trattati di Dublino che impongono ai rifugiati la destinazione finale del Paese di approdo. «Le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo si sono europeizzate e hanno ridotto il rischio di tragedie in mare, ma per quanto tempo si può accettare l’idea che le navi dei diversi Paesi europei salvino migranti per portarli nei porti italiani?». 
Quali sono i punti critici? 
«La mancanza di condivisione è il macigno che rischia di far scricchiolare l’Europa stessa. Sembra quasi che non ci sia consapevolezza delle caratteristiche della nuova immigrazione: i numeri; le difficoltà di distinguere motivazioni di guerra, politiche, economiche; la forza crescente delle organizzazioni di trafficanti. La Commissione ha provato a lanciare un’agenda comune, sulla scia del vertice straordinario promosso dall’Italia, ma ora quell’agenda va rilanciata » . 
Che cosa rischiamo? 
«È a rischio uno dei pilastri fondamentali dell’Unione europea: la libertà di circolazione delle persone. Dalle coste siciliane a Kos, dalla Macedonia all’Ungheria e a Calais, vediamo accendersi tensioni che alla lunga potrebbero rimettere in discussione Schengen. Possiamo pensare a una Unione europea senza Schengen? Al ripristino delle vecchie frontiere? I migranti non arrivano in Grecia, Italia o Ungheria, ma in Europa. Anche le regole dell’accoglienza devono essere europeizzate». 
Condivide le critiche del cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, che parla di insufficienza e inefficacia dell’azione dell’ONU sul fenomeno migratorio? 
«Le Nazioni Unite in alcune aree fanno un lavoro molto importante. Ma è sufficiente? La debolezza dell’Onu è implicita nel modo in cui è organizzato il mondo oggi». 
Sull’immigrazione ci intendiamo con la Germania. E gli altri Paesi? C’è qualcuno che dovrebbe fare di più? 
«L’Italia non distribuisce pagelle. Certo la Germania è tra i più attivi nelle politiche di asilo e a sostegno di un impegno comune europeo. In molti altri prevale l’idea che i Paesi esposti alle frontiere esterne dell’Unione debbano sbrigarsela da soli. L’Unione è arrivata all’umiliazione di ore e ore di dibattito sulla ricollocazione di poche centinaia di migranti da parte di singoli paesi». 
La Lega invece sembra essere consapevole del problema. O no ? 
«La Lega fa propaganda. Chi promette soluzioni magiche per fini di consenso, seminando paure e diffondendo illusioni, talvolta ridicole, non aiuta l’Italia ma la danneggia. E non sono neanche sicuro, lo vedremo alle prossime elezioni, che aiuti se stesso». 
L’assassinio e la decapitazione dell’archeologo Asaad e la distruzione del monastero di Mar Elian in Siria ripropongono il tema della guerra dell’Isis ad arte e cultura. È verosimile l’invio di caschi blu per difendere luoghi come Palmira? 
«L’aggressione contro il patrimonio culturale si salda alla persecuzione dei cristiani in una escalation dell’orrore. Bisogna difende- re la presenza cristiana senza la quale il Medio Oriente cambierebbe volto. E bisogna fare il possibile per proteggere il patrimonio culturale. È ovvio che non si può andare a Palmira oggi, ma la comunità internazionale può provare forme di protezione in aree non di guerra ma a rischio, e promuovere interventi di ripristino nelle aree che via via vengono liberate». 
L’Isis è davvero una minaccia epocale? Qualcuno ancora ne dubita. 
«La pericolosità di Daesh è enorme e deriva da due fatti: il controllo non effimero di un territorio grande fino a 300mila chilometri quadrati, più o meno quanto l’Italia, e abitato da alcuni milioni di persone, con una disponibilità finanziaria che la coalizione anti-Daesh stima di poco inferiore al miliardo di dollari l’anno; secondo, in conseguenza di questo controllo e di una lugubre simulazione di entità statale, una capacità di comunicazione e di reclutamento di combattenti stranieri assolutamente senza precedenti. Daesh oggi è naturalmente basato in Siria e Iraq, ma tracce della sua presenza ci sono in oltre 20 Paesi» . 
Lei preferisce riferirsi all’Isis chiamandolo Daesh, l’acronimo arabo usato in Francia. 
«Può apparire un dettaglio, ma è utile togliere qualsiasi riferimento a espressioni statali o di califfato nel modo in cui definiamo questo fenomeno. Per questo è utile chiamarlo Daesh». 
Daesh si vince solo mettendo gli scarponi sul terreno? L’apparente disimpegno degli Stati Uniti è un problema per noi? 
«Non possiamo oscillare tra la condanna degli effetti nefasti dell’interventismo militare e poi invocarlo di nuovo. La leadership americana non è sparita, si esprime in modo diverso. Ma invito alla prudenza coloro che dopo averne descritto gli effetti catastrofici in Iraq o in Libia, di nuovo invocano l’interventismo militare in questa regione». 
Eppure lei stesso ha evocato lo strumento militare in Libia. 
«Quando ci sarà l’accordo tra le forze libiche, questo avrà bisogno di essere accompagnato, monitorato e protetto da una coalizione in cui l’Italia può avere un ruolo fondamentale di riferimento». 
L’Italia guiderebbe la coalizione ? 
«L’Italia è il Paese europeo più interessato alla stabilità della Libia, per ragioni economiche, cioè il petrolio, migratorie, e di sicurezza. Potrebbe essere la nazione di riferimento tra i Paesi occidentali in una coalizione anche con paesi arabi e africani per il consolidamento di un accordo inter-libico. Ma il tempo del negoziato non è infinito, quella che si avvia questa settimana deve essere la fase conclusiva ». 
E se non si troverà un’intesa? 
«Senza accordo di pace lavoreremo sulla possibilità di estendere alla Libia il tipo di azioni che oggi conduce in altri teatri la coalizione anti-Daesh. Noi lavoriamo per l’accordo tra i libici. Il semplice contenimento anti-Daesh sarebbe un rimedio all’insuccesso del negoziato. Comunque in nessun modo accetteremo l’idea di nuove avventure: pace e stabilità non si possono imporre alla Libia con le armi di un esercito occupante straniero. Questo scenario non esiste. Un nuovo intervento simile a quello di quattro anni fa produrrebbe ancora più danni di quelli prodotti allora». 

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